A-loud mi ha intervistato su un romanzo che amo moltissimo, Il giunco mormorante di Nina Berberova: qui il vodcast, qui il podcast.
(18/05/25)
Ma bisognerebbe vederlo muoversi. Lavorando a questa chiacchierata con Massimo de Vita, da quaranta e più anni anima del Teatro Officina di Milano, avverto bene certi limiti della parola scritta: non nel senso pigro dell’impotenza a rappresentare — ci vorrebbe una moratoria per l’aggettivo “indescrivibile” — quanto perché l’arte di de Vita rifiuta la pur minima staticità richiesta dal linguaggio illustrativo. Vale per ogni attore, certo: ma questo attore ha quasi novant’anni, e non è semplice mostrare quanto le sue parole vivano realmente solo nel modo in cui vengono pronunciate o recitate — evitando con ciò lo stereotipo dell’anziano brioso.
Riproviamo, allora; e torniamo sul luogo. È un pomeriggio di metà gennaio 2025. Fuori diluvia. Io e Massimo siamo seduti a un tavolino in legno scuro, poco oltre la seduta dell’Officina: luce radente, il riscaldamento riparato da poco (grazie a una raccolta fondi di amici e sostenitori), un flebile odore di moquette. A un certo punto discutiamo proprio dell’essere un corpo vecchio. “Dormo poco”, dice lui. “Dormo molto poco però sto sdraiato a letto tanto, la notte, e sono pieno di pensieri. Avrò scordato questo? È domani che ho quell’appuntamento? C’è la lezione coi ragazzi oppure no? E poi”, sorride, la voce s’infiamma impercettibilmente, “quando il corpo si muove”, e qui si alza e accenna un passo di danza, “quando esco a comprare il pane, rinasco”. E si risiede.
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(18/05/25)
Solo ora si trovò il tempo per i sentimenti di colpa, per un disagio nei confronti del proprio passato storico. Per questo anche, soltanto ora — e mai in precedenza — divenne in ampia misura attraente ed efficace l’offerta di esonero rappresentata dalla critica in quanto smascheramento dell’estraneazione. Tale critica divenne ben presto monopolio di quella filosofia rivoluzionaria della storia nella quale aveva finito col trasformarsi, contro l’immediata opposizione dei suoi creatori e protagonisti, la “Teoria critica”. Tale esonero risiede nell’assunto secondo cui non occorre più avere la coscienza morale — nel momento in cui su di essa gravano i sensi di colpa —, se ci si trasforma in coscienza morale. Dall’ubbidienza tardiva nasce la coscienza morale che si “ha”; dalla disubbidienza tardiva nasce la coscienza morale che si “è”, quel tribunale a cui si sfugge trasformandosi in esso.
Dall’Apologia del caso di Odo Marquard: parla della fine degli anni ’60, ma mi sembra descriva perfettamente anche i nostri tempi.
(13/05/25)
Italy today celebrates the 80th anniversary of its liberation.
After two-and-a-half years, Italian partisans got rid of both the Nazi German former ally that had occupied half the country and morally rid itself of the already-fallen Italian fascist regime. To put it jokingly: We Italians invented fascism, but luckily we also invented anti-fascism.
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(25/04/25)
Verso la fine di uno dei libri più belli e meno letti sulla Resistenza — I giorni veri di Giovanna Zangrandi — la protagonista e l’amico Sergio osservano il corteo della Liberazione a Tai di Cadore. È il 2 maggio 1945; il giorno precedente le forze tedesche si sono arrese in Italia e quello stesso giorno si stanno arrendendo a Berlino.
Ci guardiamo in silenzio, non abbiamo voglia di parlare; ci passano davanti quei tipi paludati di tricolori e coccarde, passa via la camionetta dei tommies e delle ragazze. Da sotto le armi esce la voce bassa e roca, staccata, di Sergio: “Adesso comincia il casino, vedrai che razza di casino ci impiantano”.
Il timore può sembrare strano: ma come, adesso comincia il casino? Ora che è finito tutto? Ma non era un sentimento isolato. Nonostante il sollievo, c’era da un lato il rimpianto per un tempo sì feroce ma anche libero ed entusiasmante; e dall’altro il carico di preoccupazioni verso l’immediato futuro.
In Diario partigiano Ada Prospero Gobetti racconta del suo 26 aprile insonne a Torino. A tenerla sveglia non è la lotta che prosegue ancora in provincia, né la difficoltà di ricostruire il Paese: piuttosto l’ansia di combattere «contro interessi che avrebbero cercato subdolamente di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire». La battaglia si trasferisce in un teatro interiore; la vittoria che ha unito il popolo «si sarebbe frantumata in mille forme, in mille aspetti diversi».
Ottant’anni ci separano da allora e c’è innanzitutto un equivoco da chiarire: l’idea che il 25 aprile chiudesse più o meno definitivamente i conti con il passato. Così più o meno viene raccontato, del resto; ma quel giorno non ci furono vittoria o pace bensì l’ordine di insurrezione generale emanato dal CLN. Un evento ancora in fieri, non cristallizzato.
E dopo, che accadde?
(25/04/25)