Goffredo Fofi (1937-2015)

Oggi è morto a Roma Goffredo Fofi. Un altro come lui – che lavorò diciottenne con Danilo Dolci in Sicilia, che ti fa scoprire Nicola Chiaromonte e Caffi e Colin Ward, che ti invita a rileggere Capitini, che nonostante l’età e la stanchezza si mette ancora in gioco per dare una mano senza chiedere favori in cambio; un altro come lui che ha condiretto i Quaderni piacentini, fondato e diretto Ombre rosse e Lo straniero con Alessandro Leogrande (di cui scrisse uno splendido ricordo) e Gli Asini; un altro come lui che davanti alle storture del mondo non si rassegna e anzi fende colpi, che ha scritto su Totò e Pasolini e l’immigrazione meridionale a Torino e il vegetarianesimo e Camus e Camillo Berneri; un altro come lui che a differenza di troppi parolai legati al loro piccolo potere il potere lo rifiutava, affrontando la realtà senza il comodo filtro delle astrazioni e senza timore di sbagliare; un altro come lui che aveva lavorato come educatore ancora lo rivendicava quale prima e fondamentale vocazione, che frequentava viso a viso la gente e la amava perché conosceva la sofferenza, e poiché amava la gente si arrabbiava, e poiché si arrabbiava lavorava e studiava e si impegnava; un altro come lui che fu tra i primi a scoprire Dagerman in Italia e scriverne, che cercava sempre di aggregare, mettere in comune, mettere insieme, battere l’onda dell’individualismo che saliva e ci ha sommersi – ecco: un altro così, in questi tempi cinici, gli dèi non ce lo mandano più. Che la terra ti sia lieve, Goffredo: ti ho voluto molto bene.

(11/07/25)

Seminare chiarezza

Semi sotto la neve, benissimo. Ma quali? La gramigna non vale quanto il frumento, è un’ovvietà e ciò nonostante occorre ribadirlo: ragionare proprio su quanto a noi appare scontato, ritornare ai fondamentali, evitare l’incantesimo di immagini così belle ed efficaci come l’embrione della pianta che attende sotto la fredda coltre, invisibile ma vivo. Tra le tante possibilità di semina ne suggerisco dunque una: chiarezza.
L’idea non è mia. La prendo dall’editoriale di Volontà del luglio 1948, dove si tirano le somme dei primi due anni di lavoro, mentre “il distacco tra popoli e Stati non è mai stato evidente come oggi, per chi osa guardare la verità”. Erano i tempi dei blocchi contrapposti e della Guerra fredda, ma la situazione è poi tanto diversa oggi? “Tutto è malcerto”, prosegue il corsivo. “E non è solo malcerto per noi, spettatori e vittime del gioco. Anche ci lo fa non sa affatto dove andrà a finire: sa solo che si batte — come una belva affamata, ma senza la scusa della fame, e in pretesa d’umano — per vincere, contro altri che anch’essi si battono per vincere e basta.” Non sembra un pezzo scritto oggi?
Criticando “la facile via delle fantasie intellettuali” e facendo piazza pulita dei “problemi grandiosi”, sorge una nuova consapevolezza: la bellezza “non è più di palcoscenico, che basta guardarla: va cercata e creata nello stesso tempo, che è tanto più difficile, ma tanto più concreto. E solo così ci si trova alla statura vera dell’uomo, in contatto con i nostri veri problemi. Si pensa per lavorare e per amare, si lavora si ama si lotta, si costruisce”. E dunque:

Vogliamo aiutare i nostri compagni di servitù, a battersi quando si battono per sé: il che include aiutarli ad orientarsi, a capire, soprattutto quando illudendosi di battersi per sé si battono in realtà contro i loro stessi fratelli, a favore dei comuni nemici, che accade assai sovente e bisogna aver coraggio di denunziarlo. Vogliamo quindi, prima di tutto, insistere nel dire la verità, rifiutando le tattiche i compromessi, vogliamo eccitare al dubbio, alla rinascita dello spirito critico, denunziando l’errore profondo dei dogmi delle tesi definitive.

L’editoriale, non firmato ma intriso tutto dello spirito di Giovanna Caleffi, chiudeva con una “duplice parola d’ordine” ben evidenziata: “Rompere barriere, seminare chiarezza” — appunto. Proviamo a sviluppare questi spunti, adattandoli allo scenario contemporaneo.

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(24/06/25)

Lavorava muto

Lavorava muto, lontano da tutti, invisibile e colmo di disprezzo per quei piccoli dilettanti per i quali il talento è un ornamento da società, che, poveri o ricchi che siano, incedono con aria selvaggia e vesti stracciate o esibiscono il lusso di cravatte eccentriche e la cui unica preoccupazione è di vivere felici, amati e da artisti, senza sapere che opere buone nascono solo sotto la pressione di una vita cattiva, che chi vive non lavora e che bisogna essere morti per essere davvero creatori.

Rileggendo Thomas Mann, Tonio Kröger, traduzione di Anna Rosa Azzone Zweifel: quasi un programma.

(11/06/25)