Ma bisognerebbe vederlo muoversi. Lavorando a questa chiacchierata con Massimo de Vita, da quaranta e più anni anima del Teatro Officina di Milano, avverto bene certi limiti della parola scritta: non nel senso pigro dell’impotenza a rappresentare — ci vorrebbe una moratoria per l’aggettivo “indescrivibile” — quanto perché l’arte di de Vita rifiuta la pur minima staticità richiesta dal linguaggio illustrativo. Vale per ogni attore, certo: ma questo attore ha quasi novant’anni, e non è semplice mostrare quanto le sue parole vivano realmente solo nel modo in cui vengono pronunciate o recitate — evitando con ciò lo stereotipo dell’anziano brioso.
Riproviamo, allora; e torniamo sul luogo. È un pomeriggio di metà gennaio 2025. Fuori diluvia. Io e Massimo siamo seduti a un tavolino in legno scuro, poco oltre la seduta dell’Officina: luce radente, il riscaldamento riparato da poco (grazie a una raccolta fondi di amici e sostenitori), un flebile odore di moquette. A un certo punto discutiamo proprio dell’essere un corpo vecchio. “Dormo poco”, dice lui. “Dormo molto poco però sto sdraiato a letto tanto, la notte, e sono pieno di pensieri. Avrò scordato questo? È domani che ho quell’appuntamento? C’è la lezione coi ragazzi oppure no? E poi”, sorride, la voce s’infiamma impercettibilmente, “quando il corpo si muove”, e qui si alza e accenna un passo di danza, “quando esco a comprare il pane, rinasco”. E si risiede.
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(18/05/25)