Darsi un capo

Il problema di stendere il manto del mito sopra persone in carne e ossa (specie se in realtà mediocri o appena carismatiche: ma vale anche per i più grandi — per me vale anche per Kafka, intendo) — dicevo: il problema è che ci rende molto più esigenti nei confronti degli altri e più indulgenti nei confronti di noi stessi. Gli altri infatti non saranno mai all’altezza del nostro idolo e siano anzi dannati se non lo abbracciano con cieca fede, o si limitano a sollevare qualche umanissima obiezione sui suoi umanissimi difetti. E qui, appunto, sta l’origine dell’auto-indulgenza: essendo noi suoi seguaci, da qui in avanti restiamo dalla parte giusta qualunque cosa diciamo o facciamo. Basta che la causa sia buona per infondere a cascata una specie di immunità delle coscienze.
Non serve infatti più un pensiero autonomo, avendo delegato la responsabilità morale all’altro. La lucidità individuale, lo scetticismo metodologico, l’istinto della pietà non selettiva, il disgusto per “la santa alleanza del linciaggio unanime” (Girard): tutti ostacoli. In breve ci si dà un capo, si conferisce potere spirituale a qualcuno che — come sempre accade — da questo potere verrà corrotto, non importa quanto in buona fede o capace sia (e naturalmente peggio ancora se è di povera fibra umana, o sospinto dalla vanità).
Forse non c’è nulla che detesti di più: l’abitudine a scrivere il proprio nome sulla lavagna dei buoni e ritenerlo scolpito in eterno, beandosi di avere ragione, ragione ragione; quando invece l’etica è un affare che va rinegoziato ogni giorno con se stessi e gli altri, messo alla prova con scelte difficili.
D’altro canto non è soltanto più arduo stimare chi pratica virtù più modeste ma reali, non si pone ad arringatore delle folle, o esercita il dubbio invitando a stimolare un pensiero indipendente. Non è soltanto più arduo: oggi, ma forse anche ieri, ma forse anche da sempre, è a rischio di perenne riprovazione.

Ognuno di noi se ha influenza di parola o di esempio, è un dirigente. Senza false modestie, riconosciamo questa nostra posizione. E siamone degni, sempre più. A coloro che addormentano le anime e irridono all’entusiasmo opponiamo non sterili critiche personali, ma l’azione. Ai mille volte traditi offriamo la luce dell’esempio.

Così Camillo Berneri in un articolo di quasi cent’anni fa: “Le masse, il fascismo, i capi nel 1919 e 1920”, Il Martello, 7 aprile 1928.

(08/10/25)

Non diventare mostri a nostra volta

Due anni fa oggi c’è stato un orripilante massacro di innocenti con annessi rapimenti (anche di bambini) e violenze di ogni sorta. Un pogrom. Comunque lo si voglia inserire all’interno del contesto storico e politico, comunque sia fondamentale denunciare senza tregua la reazione oscenamente (e lucidamente) devastatrice d’Israele, comunque si voglia difendere la vita e libertà dei gazawi, un atto del genere resta mostruoso e indifendibile. Sembra strano persino doverlo dire, ma questi sono i tempi. Cerchiamo di non perdere la ragione nel gorgo delle passioni, o di inseguire la complessità dei fatti solo quando fa comodo; cerchiamo, combattendo i mostri, di non diventare mostri a nostra volta.

(07/10/25)

“Espiazione significa azione”

Oggi vi scrivo una lettera molto personale, una lettera su cosa significhi per me essere ebreo e intraprendere una missione che mi porterà nella “Zona Rossa” durante lo Yom Kippur, il giorno più sacro del calendario ebraico.
Non scrivo quasi mai “come ebreo”. Condivido la stanchezza di essere costretto a mettere al primo posto i sentimenti ebraici, quando un genocidio è stato commesso in nome dell'”interesse nazionale” sionista e quando gli attivisti sono stati arrestati, torturati e deportati in nome della nostra “sicurezza”.
Ma oggi mi sono sentito in dovere di scrivere su quel registro, in quanto uno dei pochi ebrei impegnati in questa missione, che riunisce oltre 500 persone provenienti da più di 40 paesi in tutto il mondo.
Credo che la scelta di questa flottiglia non sia casuale. Al contrario, ritengo sia una benedizione che l’intercettazione si avvicini all’inizio dello Yom Kippur, il nostro giorno annuale di espiazione, che ci invita a riflettere sui nostri peccati e su cosa possiamo fare per ripararli nello spirito del tikkun olam.
Come possiamo espiare ciò che è stato commesso in nostro nome? Come possiamo chiedere perdono per i peccati che si moltiplicano di ora in ora, mentre bombe e proiettili piovono su Gaza? Come potremmo prendere sul serio il nostro mandato di “guarire il mondo” quando lo Stato di Israele è così determinato a distruggerlo?
Se c’è una parte della Torah che ricordo ancora, è questo obbligo che ci impone: “Giustizia, giustizia perseguirai”. Come potremmo restare a guardare mentre lo Stato di Israele perverte questo sacro obbligo, sovrintendendo all’olocausto del popolo palestinese?
Mi sono unito a questa flottiglia come qualsiasi altro delegato, per difendere l’umanità, prima che sia troppo tardi. Ma durante lo Yom Kippur, mi viene ricordato che sono qui anche perché la mia eredità ebraica lo richiede.
Da adolescente, mio ​​nonno Jacques Adler (nella foto) si unì alla resistenza parigina contro i nazisti, rischiando la vita per sabotare le loro operazioni, mentre i suoi amici e familiari venivano mandati a morire nei campi di concentramento.
Questa è la tradizione alla quale sono chiamato e la definizione di “giustizia” che sento fedele alla mia identità ebraica, poiché la stessa rabbia genocida che ha preso di mira i miei antenati è ora assunta dalle sue principali vittime.
Yom Kippur è un giorno di digiuno, un modo per manifestare la nostra espiazione in forma fisica. Ma negli ultimi due anni, la popolazione affamata di Gaza non ha avuto altra scelta che rinunciare al pane quotidiano.
Se le forze israeliane ci intercettassero durante lo Yom Kippur, allora vediamo cosa significa la vera espiazione. Non digiunare in tutta comodità mentre si fanno morire di fame i propri vicini. Non pregare in sicurezza mentre si sganciano bombe sulle loro teste. Espiazione significa azione.
Quindi, mentre stasera tramonta il sole e inizia il digiuno, spero che i miei confratelli ebrei si uniscano a me nel ridefinire il loro approccio all’espiazione, insieme alla preghiera silenziosa, e verso un’azione coraggiosa per porre fine a questo orribile genocidio.

David Adler, coordinatore generale di Progressive International e fra i militanti della Global Sumud Flotilla: la lettera è stata pubblicata su vari siti; io l’ho trovata qua.

(02/10/25)

“Manderanno giù tutto”

La decisione di sopprimere Ehrlich e Alter, membri del comitato esecutivo della Seconda Internazionale, non poteva essere stata presa all’insaputa di Stalin: troppo grandi erano le speranze che l’Unione Sovietica, esposta a una minaccia mortale, riponeva nell’azione condotta dai due. Immaginando le ripercussioni che un’esecuzione del genere poteva avere sull’opinione pubblica in Occidente, Stalin doveva aver pensato, sogghignando, esattamente quanto aveva detto sui popoli occidentali in un’altra occasione simile:
«Ničego, vsë proglatjat». («Non fa niente, manderanno giù tutto»).

Josef Czapski, La terra inumana.

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(01/10/25)