Un’altra normale giornata in questa sterminata fine del mondo

La notte fra il 16 e il 17 luglio scorsi stavo per imbarcarmi sul volo RyanAir da Catania a Venezia, abbacchiato per l’ora e quarantacinque minuti di ritardo. Mentre mostravo il biglietto al personale di terra ho sentito mormorare alle mie spalle: “Ma quello è fumo?”. Mi sono voltato ed ecco un sottile pennacchio grigiastro sbucare da un punto indefinito sopra il bar.

Piuttosto irrazionalmente (nella speranza di non perdere il volo a un passo dall’imbarco ed essere costretto a riprogrammare tutto, stordito dal caldo e dalla stanchezza) mi sono detto che non poteva essere nulla di grave. Una griglia lasciata accesa per sbaglio, to’. E così devono aver pensato molti, almeno per una trentina di secondi, perché siamo rimasti fissi a guardare la nuvola allargarsi e prendere consistenza: finché qualcuno ha alzato la voce, gli steward si sono riscossi, forse sono arrivate notizie dal piano terra — e siamo stati evacuati.

Il resto si può leggere sui giornali: non è l’evento in sé a interessarmi — più o meno grave a seconda del proprio stato di salute, del punto in cui ci si trovava e della quantità di fumo respirato — ma nel quale, per fortuna, non si è fatto gravemente male nessuno. (“E l’abbiamo capito!”, urlava un signore a un poliziotto che cercava di blandirlo: “Non è questo il punto!”. La frase può rivelarsi più profonda di quanto fosse intesa; ci tornerò più tardi).

Mi interessa invece descrivere quanto provato non appena dissipate incredulità e preoccupazione, subito dopo le telefonate a mia moglie, diciamo dal momento in cui mi sono incamminato fuori dall’aeroporto, nel buio, alla ricerca di un taxi, fino all’arrivo a Venezia due mattine dopo: un rovesciamento di prospettiva sui fatti, dipeso più dalla spossatezza che da una qualche benevola disposizione d’animo.

Nulla di nuovo, intendiamoci: è lo straniamento quale metodo epistemico, come suggeriva ad esempio Marco Aurelio: invece di guardare un pesce arrosto sforzatevi di guardare un cadavere d’animale. Eppure di rado l’avevo sperimentato con tanta incisività, e su una scala così ampia.

Dunque: invece di aver visto solo una notevole rottura di scatole ho visto andare a pezzi un gigantesco apparato inquinante infliggendo rabbia e frustrazione a gente che ne ha comprato i prodotti dando per scontata la normalità di volare per milleduecento chilometri al prezzo di un centinaio d’euro.

Ho provato l’istintivo egoismo della massa — e il paradosso è solo apparente: nella calca prima le donne e i bambini, certo, ma prima ancora io. Ho visto il caldo terribile della giornata appena trascorsa e di quella seguente, ancora tutta da gestire, non più come un’aggravante dovuta al caso ma come parte del problema stesso.

Ho valutato parole come “Il punto è che la Sicilia è mal servita” non quali giusti inviti a potenziare infrastrutture davvero utili in un territorio storicamente ignorato dall’intervento statale, ma come il possibile inizio di un discorso che finisce con il giustificare il Ponte sullo stretto o qualunque altra forma di intervento nel nome di un’idea di sviluppo fine a se stesso. (Già nel 1997 Gilbert Rist indicava “una contraddizione tra il paradigma meccanicistico dell’economico, basato sull’equilibrio, che proclama che “lo sviluppo è la vita” e lo squilibrio crescente legato a fenomeni irreversibili che indicano l’imminenza di una catastrofe possibile. […] il presente è banalizzato, poiché conta solo il progresso situato nel futuro: si è lì, ma per correre altrove”).

Ho visto crearsi ritardi che il sistema non tollera, e qui l’aneddotica è ampia: andiamo dalla mia ansia nottetempo per le mail non lette e i compiti da correggere all’indignazione dei manager che prendevano l’incendio quasi come un affronto ideologico (“Io ho da fare!”), fino alla ragazza che rideva nervosa il giorno dopo, sul pullman per Palermo dove avremmo preso altri voli prenotati all’alba o cercato altre soluzioni, riversando stanchezza e rabbia su altre persone: “Pensa che alle cinque ho una call”, ripeteva. Per non citare il volto contratto di chi non aveva né sottoposti da gestire né call da organizzare ma banalmente un giorno di permesso in più da chiedere, di fronte a soldi spesi e una notte insonne.

Ma non l’avevamo appena scampata? Non poteva finire molto peggio? Non era il momento di ripensare a quanto c’è di gratuito, bello e luminoso nella vita? No.

Perché spostare il nostro sguardo da ciò che l’abitudine ci ha consegnato come ovvio non è solo difficilissimo; è anche percepibile come un’offesa personale. Perché è davvero ovvio pretendere che l’immensa macchina in cui siamo immersi funzioni con rigore — tanto quanto è ovvio ritenere un diritto l’illimitata possibilità di acquisto, o irritarsi perché un gruppo di manifestanti bloccano il traffico impedendoci di tornare a casa dopo una dura giornata di lavoro. Ed persino è ovvio che in situazioni di crisi, per quanto piccole, emergano tanto i lati più confortanti dell’umanità (i signori liguri che mi hanno offerto la colazione solo perché li ho aiutati a comprare il biglietto del bus, gli amici che mi hanno subito ospitato a Palermo) quanto quelli più odiosi (il tassista che mi ha fatto pagare venticinque euro cinque minuti di tratta, chiarendo con tono eroico come la tariffa normale sarebbe stata più alta ma non voleva “lucrare sulle disgrazie”).

Ecco qui: la buona, vecchia, ovvia ovvietà dell’ovvio. Paura, urla, lamentele, minacce, video, foto e dopodomani è tutto finito.

E così sarebbe in tempi ovvi; ma non lo è più da decenni a questa parte benché sia estremamente difficile riconoscerlo in ogni sua conseguenza. Siamo a latitudini diverse dal negazionismo, malattia odiosa ma sradicabile: siamo nel regno dove anche il più bendisposto attivista climatico fatica ad avventurarsi — per ovvie ragioni, aggiungo non ironicamente.

Usciti da Catania il termometro esterno del pullman ha cominciato a fibrillare. 41 gradi, poi 43, 44, e infine 45 per una manciata di minuti durante i quali ho preferito volgermi al finestrino: è tutto era come è sempre stato, senza segni di catastrofe visibile: serre di pomodori, tralicci dell’alta tensione, macchie di arbusti verde cupo, un’afa lattescente stesa sull’orizzonte.

Sono rimasto interdetto, quasi mi aspettassi di intravedere demoni ghignanti alla finestra di una casera abbandonata. La faglia aperta in tutta l’ovvietà di quella situazione di disagio era soggettiva, certo; ma, mi ripetevo, non c’è nulla di soggettivo in 45 gradi centigradi né in un modello economico che sacrifica tutto al profitto invitando a normalizzare il disastro, o… O forse sì? Forse anche la reale percezione di questi fatti dipende da determinati stati d’animo? Dopotutto non sembrano spingerci all’azione davvero radicale che implicherebbero.

Ciò non significa smettere di provarci, ognuno a modo proprio con chiara volontà politica; ma è dura scalzare il modo in cui reagiamo persino a simili eventi, ricollocandoli subito in una più vasta e ottusa normalità. (Ad esempio, nel mio caso, scacciando i pensieri e aprendo Mephisto di Klaus Mann: reazione per nulla più nobile di altre, nell’ottica straniante che ho cercato di adottare).

45 gradi. Ieri però non si è fatto male nessuno, riflettevo: l’ovvia consolazione in casi del genere — e credetemi, lo dico senza alcun cinismo. “Ma non è questo il punto!”, strillava il signore indignato di fronte alla consolazione stessa. Lui pensava ai bagagli imbarcati e finiti chissà dove, e l’avrei pensato anch’io se non avessi avuto solo uno zaino; tuttavia come accennavo la frase in sé era corretta: il punto non era quello bensì un altro.

Potremmo metterlo così: l’illusione di ovvietà in cui galleggiamo è spaventosamente pericolosa, ma il lessico a nostra disposizione è impoverito al punto da non rendere questa frase davvero verificabile — da non morderci realmente le viscere. “Chi se ne frega se non si è fatto male nessuno in quel dato momento: stiamo distruggendo il pianeta!” Possiamo scriverlo, urlarlo, e ciò nonostante non ha l’impatto che gli spetta, il sapore osceno di certe verità divine. Dovremmo ricorrere a un vocabolario teologico per percepirne lo scandalo, se anch’esso non fosse ormai ridotto a un pugno di cliché senza poteri di suggestione. Pensate ad Abramo: Dio gli chiede l’unico figlio, ovvero il tempo tutto, come scrisse Blanchot nello Spazio letterario: “e il tempo sacrificato non gli verrà certo reso nell’eternità dell’aldilà: l’aldilà non è altro che l’avvenire, l’avvenire di Dio nel tempo. L’aldilà è Isacco”. Eppure Abramo obbedisce. Come è anche solo pensabile? Ma qualcuno l’ha pensato e raccontato, conferendovi effetti duraturi per millenni sul nostro immaginario.

45 gradi, e andrà peggio. Il riscaldamento globale è una realtà che, se rettamente intesa, non si lascia ridurre a considerazioni di contesto. Tutto può essere messo in relazione ad altro, comparato, discusso, e anche questa è un’ovvietà di nobili natali, figlia di un relativismo accorto e moderato: ma non vale per la crisi climatica, che mette in gioco precisamente tutto. Purtroppo già Kant osservava nella Critica della ragion pura come la totalità dei fenomeni fosse un’idea e non un’esperienza possibile: c’è qualcosa di arcano in questo concetto-limite.

Anche per questo la crisi climatica appare una “tempesta morale perfetta”, dove i nostri punti di riferimento vacillano. Immaginare un’etica e una politica capaci di reggere la sfida è è estremamente complesso, perché occorre tendere fino allo strappo i concetti fondanti della nostra civiltà, come l’attribuzione di responsabilità e diritti ai singoli individui umani.

Durante il tragitto ho scritto al mio amico Fabio Deotto (autore di un eccellente libro attorno gli effetti cognitivi del riscaldamento globale): “Hai presente quando ti sembra di vivere la fine di tutto?”.

Ma mi sbagliavo: non è la fine, non è la prefigurazione dell’inferno a venire né un evento omega climatico che ci costringa infine ad aprire gli occhi; è solo un’altra giornata qualunque in questa sterminata fine del mondo, che non riserva repentine apocalissi e nel mio caso si conclude come tante altre — ad esempio scrivendo un articolo. O inviando a Fabio un messaggio più preciso: “45 gradi. Non riesco a credere a quel che vedo, e non riesco a credere di non avere realmente paura: eppure.”

Già: il mondo non finirà né con uno schianto né con un lamento, e la nostra incapacità di figurarlo ci sprona a continuare lungo la vecchia via, senza capire — ma come possiamo farlo su larga scala? — che è proprio questo a condannarci.

(19/07/23)