La musica, la forma, il diavolo

Guardo su dvd C’è musica e musica, il bellissimo programma di Luciano Berio mandato in onda dalla Rai nel 1972 (e ci sarebbe già molto da dire sulla Rai di quarantacinque anni fa, ma soprassediamo). Lo consiglio a tutti gli amanti della musica colta e della musica in generale: Berio è bravissimo, il montaggio straordinariamente originale, la scelta degli argomenti e l’organizzazione delle puntate ha qualcosa di piacevolmente casuale – l’autore stesso rivendica il metodo degli objet trouvés – e fra gli intervistati troviamo giganti come Messiaen, Boulez, Cage, Nono, Dallapiccola, Xenakis.

Comunque. Nella prima puntata Berio chiede cosa sia la musica a questi e altri esperti. Un genere di domanda che personalmente trovo un poco fastidioso. Penso se mi avessero chiesto cosa sia la letteratura: avrei nicchiato, oppure cercato una risposta brillante ed evasiva, oppure chissà. E in effetti la maggioranza delle risposte offerte è di questo tipo: Taverner dice che è il suo “modo di glorificare Iddio”; Milhaud replica allegramente “E perché no?”; Stockhausen si relega in un pretenzioso “La musica è il più rapido viaggio di ritorno per l’eternità”.

Ripeto: è la questione per me a essere mal posta, per quanto funzioni benissimo nell’ambito della trasmissione: serve da ouverture, da elemento dinamico del racconto; ed è ben veicolata dalla quantità a varietà di risposte, che a loro volta buttano sul tavolo dei temi da sviluppare. Un po’ come l’odiosa ma inevitabile domanda: “Da cosa è nato questo libro?” in ogni presentazione. Un po’ come il “Come va?” – nessuno si aspetta una replica onesta, ma solo l’inizio di un dialogo.

E tuttavia, Lukas Foss prende tutto sul serio e dice qualcosa di molto interessante. Forse non è un caso che Berio lo incalzi. Cos’è la musica, quindi?

FOSS: È un’arma: un’arma che non fa male a nessuno, un’arma per combattere il nemico.

BERIO: Qual è il nemico?

FOSS: Il nemico è tutto quanto minaccia di annientarmi, qualsiasi cosa voglia portarmi via la libertà o l’amore.

BERIO: Puoi descriverlo, puoi dare un nome, un volto a questo nemico?

FOSS: È tutto ciò che è intorno a me. Non so definirlo con una parola, anticamente lo chiamavano il diavolo.

Già: il diavolo. Evocarlo non è banale e non è un esercizio di religiosità fuori tempo. “Anticamente” il diavolo era appunto la moltitudine, il caos, l’irriflesso, l’incontrollabile, qualunque forza distruttiva pronta a derubarci di una integrità a lungo costruita e difesa.

Di certo era anche un’orrenda scusa per l’irresponsabilità personale, o una minaccia sbandierata dal potere: collocare il male al di fuori del proprio cerchio di scelte è il modo più semplice per levarsi di dosso ogni colpa.

Ma non è di questo che Foss parla, e non è questo che ci interessa. La metafora diabolica sta qui per tutto ciò che “voglia portarmi via la libertà o l’amore”: tutto ciò, io credo, che si oppone alla forma – di cui la musica è suprema espressione – con la potenza bruta dell’indeterminato e del caotico, che siamo noi a scegliere; che siamo noi a volere, non altri.

Fuor di metafora: tutte le forze che si appellano al nostro desiderio di pura distruzione senza alcun proposito costruttivo – quelle che spregiano i fatti e chiamano al mero odio – sono dominate da tale elemento diabolico. Alla lunga non fanno altro che derubarci della nostra libertà. del nostro amore: della nostra libertà di creare qualcosa di solido e duraturo; del nostro amore per altri che noi stessi.

A questo cosa opporre, se non la passione per la forma? La passione per il ragionamento, per l’argomentazione da discutere e sviscerare, per il conflitto anche rabbioso ma su basi condivise?

Ai miei allievi di scrittura ripeto sempre una banalità: il linguaggio si può distruggere una volta che lo si è compreso e masticato a lungo. Pensare di essere rivoluzionari senza base alcuna è il modo migliore per diventare i peggiori violenti e conservatori: così furono i fascisti nel 1919.

La musica, questo fatto acustico meraviglioso e ostinato, questa consolazione senza fine, ci offre una gran quantità di esempi. Anche quando dissolve un contesto formale, se non lo fa con l’odio di chi desidera soltanto far tabula rasa, ne ricrea uno nuovo: l’ultimo Beethoven, Stravinskij, Charlie Parker. E anche quando sembra replicarne o rileggerne una, se non lo fa pedissequamente, ne inventa una variante di altissima bellezza: Bach, Brahms, Duke Ellington. (So che molti avranno da ridire sui miei esempi: amen).

In un saggio su Brahms dal titolo La forma come disciplina, il grande Massimo Mila disse del compositore che la “forma sonata su cui rimase crocifisso per tutta la vita non fu un fardello del passato subito passivamente ma fu un’arma. Un’arma di autodifesa. La forma come argine”. Sì, la forma come argine alla barbarie. Ci tornerò su.

(04/11/17)