(Nella foto, il cadavere di Emilio Alessandrini)
1.
Rileggo L’affaire Moro, nell’edizione originale posseduta da mio nonno. Alla fine di pagina 81, il vecchio appunta a matita: “La mitologia: Robin Hood. Primula rossa. Rocambole.” Ovvero colui che si ribella alle istituzioni malvagie, con il compito di salvare i poveri e gli oppressi. Rocambole, in questa lista, sembra abbastanza fuori luogo: ma tant’è: il senso è comunque chiaro. Il processo di analisi delle ragioni dei terroristi rossi si basa su una sorta di simpatia a pelle per lo scopo, tutt’altro che sottinteso, di gran parte del movimento: operare per il benessere dei deboli e dei proletari: e più in generale completare il lavoro della Resistenza, tradito dal governo democristiano. (Il “passaggio delle armi”, sia fisico che simbolico, da parte di un vecchio partigiano è uno degli aneddoti più interessanti raccontato da Franceschini: la lotta armata non finisce, non può finire, c’è ancora molto lavoro da fare per la libertà del popolo italiano).
Nel 1978 mio nonno ha cinquantanove anni, insegna letteratura italiana in una scuola superiore, ed è quanto di più lontano dall’ideologia delle Brigate Rosse. È vagamente democristiano (nel modo in cui lo è la stragrande maggioranza dell’elettorato: inconsapevole e attratto dal connubio delle due parole, democrazia e cristianesimo): i metodi dei brigatisti lo disgustano e prova grande tristezza per la morte di Moro. Eppure, rileggendo le sue note, anche lui non può esimersi dal confrontarsi con un timore: e se avessero, anche in minima parte, ragione?
2.
(Per me la frase più bella del libro di Sciascia è questa, e contiene una parola che occorre tenere da parte: “Forse ancora oggi il giovane brigatista crede di credere si possa vivere di odio e contro la pietà: ma quel giorno, in quell’adempimento, la pietà è penetrata in lui come il tradimento in una fortezza. E spero che lo devasti.”).
3.
Dall’omicidio di Moro sono passati trentaquattro anni; trentatré dall’omicidio di Emilio Alessandrini, trentadue da quelli di Walter Tobagi e Guido Galli, e così via. Al di là degli anniversari e del tempo che passa, mi sembra sempre urgente porsi ancora la domanda di cui sopra, quella sulle ragioni dei brigatisti e sul coinvolgimento emotivo che la lotta armata può dare.
Mentre i lavori che avevamo non torneranno più, mentre la stragrande maggioranza delle persone che conosco fa fatica ad arrivare a fine mese, mentre le famiglie saltano in aria, il capitalismo fa un giro di vite su chi ha sempre meno, si occupa Wall Street e si viene sgomberati, e qui in Italia quando i soldi dei nostri nonni saranno finiti ci sarà ben poco da ridere.
Non è un esercizio di memorialistica: è un esercizio attivo di comprensione — un modo per evitare il peggio, che arrivi oggi o fra due anni o fra dieci.
4.
Nel dicembre 2009 scrissi un pezzo dal titolo La nostra paura. Parlava di una cosa che mi spaventava molto: la possibilità che la mia generazione scegliesse la via della violenza per fare fronte alla situazione, sempre più esasperante, in cui si trovava (e si trova). Il caso scatenante fu la statuetta del duomo tirata in faccia a Berlusconi. Un anno dopo ritornai sullo stesso tema — è inutile, è davvero un’ossessione — in occasione delle rivolte studentesche a Roma. (Ricordate? Sembra passato così tanto tempo: era la fine del 2010). In entrambi i casi, il mio atteggiamento era quello di una persona emotivamente partecipe.
Diciamola tutta: ero parecchio incazzato e depresso (non che ora non lo sia), e mi sembrava che non ci fosse alcuno sbocco razionale possibile di fronte a un sistema sempre più chiuso, a una generazione — quella dei padri — sempre più egoista e crudele.
Scrivevo:
sono il primo a credere nella razionalità e nel dialogo, sono il primo a dire che la violenza è uno schifo, ma dovremmo tutti ricordarci la continua, orribile, disgustosa violenza che è stata compiuta su di noi negli ultimi vent’anni. Per questo non c’è alcuna giustificazione, anche perché è lì, e lì soltanto, la radice di ogni altra rabbia e di ogni altra ferocia: incolpare chi reagisce, anche se reagisce contraddicendo i propri ideali, è un gesto veramente ipocrita.
[…]
Io vedo solo una marea di persone che chiede la decenza e la dignità del possibile, del quotidiano, del giusto. Io non vedo alcun infantilismo, come fu quello dei nostri padri: vedo molta amarezza, molta maturità, e già il fatto che si sia arrivati così tardi a questo punto significa che questa maturità è profonda e custodisce un’etica pubblica molto forte.
Non è per vigliaccheria che “i giovani non fanno la rivoluzione”, come dicono i vecchi, ma perché ci è stato insegnato che la violenza è sbagliata.
Ma a tutto c’è un limite, credo.
Il tono della prosa è molto teso, anche se fa di tutto per non sembrarlo. Ci sono un paio di punti che mi fanno tremare, riletti adesso a mente più lucida: più che un pezzo di analisi è il tentativo, mal riuscito, di vestire in forma argomentativa una rabbia terrificante, un disgusto che non trova pace. (Ricordo benissimo quei giorni, e ricordo benissimo come mi sentivo: questa, ovviamente, non è una giustificazione).
Quindi il succo del discorso sarebbe: sì, sono un illuminista e sì, la violenza è sbagliata e sì, lo sappiamo benissimo, eppure limitarsi a incolpare chi reagisce (“anche se reagisce contraddicendo i propri ideali”!) è sbagliato. In sostanza, “a tutto c’è un limite”.
Benissimo: quale?
5.
Un episodio ancora più lontano nel tempo. Non ricordo esattamente quando — forse nel 2008? — ci fu un breve momento di violenza urbana a Milano, in corso Buenos Aires. Ragazzi che spaccarono qualche vetrina in segno di protesta, esasperati dalla situazione. (La solita: nessun lavoro, nessuna prospettiva, Berlusconi, la crisi, l’orribile vuoto dentro cui stiamo cadendo tutti e così via). Guardando le fotografie, se proprio non eri uno stronzo che girava la città in taxi, non potevi provare un piccolo e terrificante brivido di soddisfazione.
“Hanno fatto bene”, mi disse un conoscente. “Hanno fatto proprio bene. Hanno dato un segnale. Perché la gente non ce la fa più.”
“Ma hanno colpito degli innocenti”, osservai. “Magari hanno distrutto il negozio di uno che non c’entrava nulla — uno normale, uno come noi.”
“Non ci sono più innocenti”, fu la risposta.
6.
Robin Hood ruba ai ricchi per dare ai poveri: commette dunque un reato, ma a buon fine.
Nei paesi arabi si prendono le armi per rovesciare dei regimi tirannici: si uccidono delle persone, ma a buon fine.
Le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro, lo giudicano presso il loro tribunale del popolo, e infine — stante il mancato rispetto delle condizioni per liberarlo — lo uccidono: commettono dunque un reato (un delitto terribile). Anche qui a buon fine? Le ragioni del terrorista possono essere buone ragioni, e fino a che punto i mezzi sono giustificati?
“Non ci sono più innocenti”, diceva il mio conoscente. È una frase molto forte e molto affascinante insieme: invita a pensare che il caos è qui e ora: un caos gioioso, una danza brutale e vitalissima insieme, dove il diritto è sospeso ma solo perché stiamo, tutti insieme, costruendone uno nuovo e più giusto. Dalle ceneri di questa società nascerà un nuovo stato di cose, e via di retorica.
Ma è quando si scambia la causa storica con la giustificazione morale — quando non c’è più alcuna differenza nel destinatario del proprio colpo, della propria rabbia — che si apre il vero abisso. E non vedo quale nuovo stato di cose possa nascere da questa negazione dell’innocenza.
7.
Allora, forse il primo segnale che la soluzione è diventata un nuovo e più terrificante problema è questo: l’assolutismo che non prevede più ragioni, ma soltanto fede: l’idea che l’odio vada materializzato, usato fisicamente come un’arma, sempre e comunque, a qualunque costo, perché stiamo lavorando per un bene più alto e non c’è più niente da discutere. (Chi discute è amico dello status quo, e dunque sospetto).
Di fronte a questa febbre, l’unica salvezza è comprendere che in qualunque momento della nostra vita possiamo sbagliarci, e che da certe cose non si torna indietro — il giudizio e l’assassinio di persone innocenti, la tattica di “portare terrore” colpendo i più onesti, la reazione a una pure terrificante strategia della tensione: da tutto questo non si torna indietro.
Il sangue ricade, come aveva scritto bene Aldo Moro nella sua celebre lettera: e non ricade soltanto sui gerarchi della Dc, bensì su tutti, sulle generazioni future. Non c’è una strada che rimetta insieme questi pezzi, e anche le parole che li veicolano sono importanti, importantissime, e lo saranno ancora di più negli anni a venire.
Nella sua doverosa autocritica, contenuta ne La notte che Pinelli, Adriano Sofri scrive:
C’è un ragionevole controllo da esercitare sulle proprie parole, lo stesso che si impara quando ci si sia bruciati una volta. Lo sguardo lungo fino al punto in cui il fatto potrebbe seguire. La non-violenza, se non è uno scioglilingua per la riabilitazione dei reduci e combattenti, è questo: la correzione di un modo d’essere non tanto dal versante della pratica, ma della grammatica, del pensiero e delle sue parole. Nel famoso Sessantotto noi ne avevamo di parole nuove a disposizione, e la nostra colpa — una debolezza del pensiero, un’ignoranza e una soggezione — fu nel cedere alle vecchie, pur sentendo che si veniva trascinati lontano dalla terra promessa.
Dovremmo essere — tutti noi che usiamo le parole in pubblico, e dunque oggi tendenzialmente “tutti noi” davvero, vista la diffusione dei social network — dovremmo essere molto più severi con noi stessi.
8.
Ma allora, che fare? Tanti bei discorsi, tante belle frasi, ma uno comunque resta invischiato in una società ingiusta: appellarsi al buon cuore è una cosa, ma quando non arrivi a fine mese e la ferocia ti prende alla gola e nessuno più ti rappresenta o ti difende, a chi appellarsi? Come rendere ragione al me stesso che scriveva quelle righe, che diceva “la violenza è sbagliata, ma”, e insieme non precipitare nell’abisso? Come reagire a un sistema palesemente ingiusto, come ribellarsi senza colpire gli innocenti, come combattere i mostri senza diventare mostri noi stessi?
Non lo so. Ci sto ancora pensando sopra e credo di non avere davvero i mezzi per elaborare una risposta compiuta. Però credo fermamente in una cosa: dalla spirale di rancore non si esce con altro rancore. Per quanto doloroso e persino ingiusto possa sembrare, dobbiamo avere standard più alti di chi ci ha preceduto: a questo non si arriva né con l’intelligenza né mostrando che gli altri sono dalla parte del torto, e dunque questo regala a chi reagisce un certo grado di impunità — “anche se reagisce contraddicendo i propri ideali”: ho scritto davvero così. Ci si arriva soltanto con l’empatia. Ci si arriva riguardando la foto del cadavere di Emilio Alessandrini. Ci si arriva rileggendo la storia. Ci si arriva, come diceva Susan Sontag in una delle frasi che più amo e più spesso cito, fermandosi un istante e pensandoci su: “perché non si può allo stesso tempo pensare e colpire un altro”.
E se questo vi sembra un modo stupido e attendista che frena l’azione e il cambiamento, non ho davvero altro da fare che ripetere: fermatevi un attimo e pensateci su.
9.
“Forse ancora oggi il giovane brigatista crede di credere si possa vivere di odio e contro la pietà”, scriveva Sciascia: “ma quel giorno, in quell’adempimento, la pietà è penetrata in lui come il tradimento in una fortezza. E spero che lo devasti.”
Lasciarsi devastare non è bello. Ma credo sia l’unico modo per prendere coscienza di quanto è semplice alzare un braccio e fare del male a qualcun altro: bisogna bere fino in fondo il calice dell’umanità per imparare il duro lavoro di essere migliori.
C’è sicuramente intelligenza negli inviti a sovvertire un sistema ingiusto, e c’è anche un certo grado di ragione: le innumerevoli persone che non ne potevano più e invocavano una nuova misura di estremismo — amici, colleghi, conoscenti con cui ho parlato — non erano certo degli stupidi o delle bestie. Erano intelligenti.
Ma l’intelligenza, senza pietà, non serve a nulla.
(27/06/12)