Il nostro bisogno di utopia

Preoccuparsi dell’oggi, al limite del domani: mai del dopodomani. Questo è il nuovo canone della vita ai tempi della crisi: sobrietà uguale realismo uguale incapacità di sognare un futuro più in là di quello prossimo — tanto da appiattirsi sul mero presente. Stiamo già male noi, come potremmo sognare qualcosa di più, o regalare un ideale ai nostri figli? La desertificazione dell’immaginario porta anche a questo: una sorta di fastidio per il concetto stesso di utopia. Siate realisti, non chiedete nient’altro. C’è da riflettere su tutto questo cinismo. E insieme, sulla nostra incapacità di di ridare spazio a forme di immaginazione più ampie, persino più ardite. Utopiche, appunto.

Ma come disegnare un’utopia politica oggi, senza passatismi e senza sclerotizzarla in un rimedio peggiore del male? Basta qualche pagina del Legno storto dell’umanità di Isaiah Berlin per cautelarsi di fronte alla ricerca di un ideale che costringa gli uomini “a indossare le belle uniformi imposte da ideologie accettate dogmaticamente”, la cui conseguenza è quasi sempre l’orrore. Berlin ci mette in guardia contro la staticità delle utopie: una perfezione decisa a priori e verso cui tendere senza esitazioni, con ogni mezzo. Questo genere di utopismo oggi appare abbastanza folle — quantomeno in Occidente.

Un’alternativa possibile, e la stiamo osservando da tempo, è quella di abbandonare del tutto il pensiero utopico. Un grigio realismo, come dicevamo: forse non saremo animati da spiriti grandiosi, ma quantomeno non produrremo più Stalin e lotta armata. (Nella Società aperta e i suoi nemici Karl Popper argomentava più o meno in questo modo: sostenendo che la sola forma di progresso stia in un riformismo “a spizzico”).

Ma c’è una terza via. Una sorta di utopismo debole, emerso dal bagno purificatore del pensiero critico: un utopismo disposto al dialogo e alla revisione, il cui ideale è modificabile strada facendo. Non “una sfera celestiale, cristallina”, come dice Berlin, in cui sono contenute delle verità immutabili, bensì un progetto che enta di concretizzare, passo dopo passo e in chiave fallibilista, un disegno più ampio — un disegno ambizioso, che non si limiti a risolvere il qui e ora ma consegni al mondo autentica speranza.

Insomma: il progressismo non dovrebbe renderci ciechi, e la luce sinistra di certe utopie è un’eredità solida del Novecento. Ma è anche vero il contrario: qualunque discorso autenticamente di sinistra — quanto ci manca, quanto ci manca! — dovrebbe possedere una virtù che impedsica di rassegnarsi alla schiavitù del reale. Per creare un orizzonte con un contenuto: niente formule vuote o punti di vaghi manifesti, bensì esempi concreti, descrittivi. La forza di un modello, come le isole felici del Rinascimento, resta ancora immutato.

L’obiezione, arrivati a questo punto, è semplice: belle parole, ma ora siamo davvero schiavi dei bisogni più immediati, siamo davvero stretti nelle maglie della crisi, e non possiamo perdere tempo. L’utopista sogna ad occhi aperti e non considera le enormi difficoltà del momento, o le brutali limitazioni dei fatti: è un illuso.

Ma è un’obiezione fallace. L’utopista consapevole non sottovaluta gli ostacoli né dorme in attesa che qualcuno gli regali lo stato perfetto: semplicemente, possiede un ideale che lo preserva dall’astuzia, dal machiavellismo, dalle forme di opportunismo che la nostra storia conosce così bene. Per tutto questo c’è sempre qualche “fatto” pronto a giustificare ogni azione: c’è sempre un potere più alto davanti cui lavarsi le mani, sia esso l’Europa o la crisi dei mercati: sempre un altare dove sacrificare i più deboli.

Di fronte tale tendenza, un dissidente come Nicola Chiaromonte — pensatore quanto mai necessario, al giorno d’oggi — reagì rivendicando l’importanza del possibile. Di ciò che immaginiamo senza perderci in chimere: “Il “possibile” fa parte del reale”, scrive in un saggio raccolto nel volume Le verità inutili. “Si può sempre opporre il “possibile” a ciò che l’uomo politico ha, per via d’astuzia e di violenza, compiuto. Né il Terrore né il colpo di stato bolscevico erano inevitabili. Sono accaduti.”

Allargare il campo di ciò che possiamo fare — dei nostri modi di interpretare, comprendere e immaginare concretamente il bene comune, la repubblica dove vorremmo vivere — è un compito fondamentale. Siate utopisti, chiedete il possibile.

[questo pezzo è stato pubblicato sul n. 2 di “Orwell”, settimanale di “Pubblico”, il 29 settembre 2012]

(02/10/12)