Rapsodia sull’abbandono

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Leggo Lasciarsi di Franco La Cecla (elèuthera 2014), un bel saggio sull’abbandono in amore e la pervasività della retorica dell’“amore eterno” nella nostra società. Che di retorica si tratti e non di realtà è testimoniato dal numero sempre più alto di rapporti interrotti, divorzi e separazioni. Di fronte a questo più generale indebolimento dei legami, sarebbe lecito attendersi – quasi per reazione fisica – una più generale diminuzione del dolore che la loro rescissione provoca. E invece non è così. Continuiamo a soffrire come cani ogni volta che ritorniamo soli, o che dobbiamo pronunciare le orribili parole che pongono termine a una relazione.

La tesi centrale di La Cecla è che non abbiamo rituali consolidati per l’abbandono. Tanto l’innamoramento e l’amore sembrano codificati secondo narrazioni precise (dal flirt al matrimonio), quanto la fine di tali sentimenti ci appare ancora del tutto soverchiante. Il risultato: ci si lascia male. Ci si lascia, anzi, sempre più male: perché non avendo a disposizione che accordi rozzi o tecniche imprecise, e con un sovrappiù di precarietà e varietà di legami così tipico della nostra epoca, il risultato è un oceano di dolore e incomprensione. La risposta al riguardo è la consueta, l’equivalente di un’alzata di spalle: quantomeno, così c’è una rottura netta. Si soffre molto, ma alla lunga ci si fa meno male.

Ne siamo sicuri? Rubricare la fine di un amore sotto la categoria delle catastrofi – e dunque qualcosa di non prevedibile, di non gestibile, di semplicemente atroce – è il modo migliore per sopravvivervi e andare avanti? «È singolare», osserva La Cecla, «che una società come la nostra, che accetta ad altri livelli una certa razionalità materialista, sia così idealista in questioni d’amore».

E in effetti idealista rimane, fino in fondo: fino al punto di non essere, in tal capo, mai giunta alla tanto sospirata modernità. Siamo sviluppatissimi, ma dentro di noi restiamo ancora legati all’amore passione codificato nel XII secolo. Con tutte le conseguenze che ciò comporta quando termina: in primo luogo, la tentazione a ridurlo sempre e comunque a una costante individuale. Tu non puoi capirmi!, urliamo all’amico che ci ascolta – come se il nostro dolore fosse unico. E in un certo senso lo è; ma non del tutto.

La Cecla è troppo lucido per proporre delle “soluzioni” al riguardo: si limita a dipingere una fenomenologia degli abbandoni nella contemporaneità, con uno sguardo da antropologo. Ovvero, con quel minimo di ironia che consente l’osservazione distaccata ma partecipe di una cultura (la nostra) e il paragone con altre (come quella Tuareg o nel Mali) che posseggono riti di abbandono collettivi, dove le code personali sono riassorbite in una comunità – e il dolore del singolo, per quanto inevitabile, viene stemperato. Paradossalmente, a essere antiquati in amore siamo proprio noi. Forse un’ottica più compassionevole verso tale sentimento e la sua imperfezione – molto lontana dal grande ideale romantico – potrebbe aiutarci a essere, se non altro, più compassionevoli con noi stessi.

Nelle righe che seguono proverò a giocare un po’ con queste idee e cercare di legarle ad altri aspetti della contemporaneità. L’andamento sarà volutamente rapsodico. E un’avvertenza: l’autore di questo pezzo, come immagino ogni suo eventuale lettore, ha sperimentato di prima mano e più volte la materia qui trattata. Ha però cercato di porsi nei suoi riguardi nel modo più oggettivo possibile – in questo anticipando alcune riflessioni che dovrebbero far parte di un libretto a venire. Non vogliategliene se ogni tanto si è lasciato andare o è apparso retorico. La delicatezza del tema non lascia scampo a nessuno; figuriamoci a lui.

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