Kafka sulla Luna

Molti manoscritti appartenuti a Max Brod, ritrovati dalla polizia tedesca dopo un furto avvenuto nel 2010, sono stati di recente restituiti alla National Library of Israel di Gerusalemme per essere in seguito divulgati. Fra di questi dovrebbero esserci diversi inediti di Franz Kafka, e com’è ovvio la notizia ha attirato l’attenzione di diversi adoratori di Franz — tra cui il sottoscritto.

La storia di questi fogli è in realtà parecchio complessa: dura da circa cinquant’anni e comprende una serie di cause legali, eredità discusse, un furto, piccinerie varie e tentativi di appropriazione da parte di due stati diversi.

Evito il riassunto e cerco di venire al punto.

In primo luogo, il fatto che gli scritti di Kafka siano rivendicati da Israele come bene culturale ebreo è quantomeno problematico, così come quantomeno problematica è l’etichetta di Kafka come “scrittore ebreo”; per non parlare dell’equivalenza fra “ebreo” e “israeliano”. Del resto non è nemmeno scontato che l’Archivio della letteratura tedesca di Marbach (che reclamava i propri diritti sui testi inediti) fosse per forza un luogo più adatto: l’humus da cui nasce l’eccezionalità kafkiana è fatto di molte componenti linguistiche.

Di fronte a tutto questo, è molto giusto e troppo facile dire che “Kafka appartiene all’umanità intera” — come Omero, Cervantes o Virginia Woolf. È molto giusto perché senz’altro l’opera di Kafka non può essere ridotta a una questione di paternità statale; ma è anche troppo facile perché di fatto questo sta accadendo: uno dei massimi scrittori di ogni tempo usato per rinforzare l’identità politica di un Paese, dopo essere stato usato per guadagnare un sacco di soldi. (Nel 1988 Eva Hoffe, che ereditò le carte di Kafka da Max Brod, vendette il manoscritto del Processo per due milioni di dollari: uno dei molti eventi incredibili della storia).

A un fine indagatore del potere come fu Kafka tali aspetti non sarebbero certo sfuggiti, e nemmeno la sfumatura oscenamente ironica che li accompagna. Forse anche per questo motivo i giornalisti non si sono lasciati sfuggire l’opportunità di usare l’aggettivo “kafkiano”, descrivendo l’iter dei suoi manoscritti inediti. In realtà di kafkiano c’è solo un elemento, perché questa messinscena di fatto termina con un giudizio inequivocabilmente netto, un ritorno alla supposta “casa del Padre” — mentre l’opera di Franz è sempre raminga, frammentaria, refrattaria alle pretese della Legge. E quando la Legge si impone, c’è ben poco da gioire.

Su tutti questi temi si è espressa magnificamente Judith Butler in un saggio tradotto in italiano dal Lavoro culturale. Consiglio di leggerlo soprattutto perché interroga i testi stessi di Kafka sul loro possibile destino; si sforza di comprendere come reagirebbero di fronte a una simile forzatura. E la risposta è assai convincente: “molti dei suoi scritti riguardano messaggi inviati là dove l’arrivo è incerto o impossibile, riguardano ordini impartiti e non compresi e dunque obbediti in quanto violati o del tutto disattesi”. E ancora: “la stessa contesa sull’appartenenza di Kafka è in sé materia di scandalo, dato che le sue opere recano traccia esperienziale di una non appartenenza o, specularmente, di una ultra appartenenza”.

Questo per quanto riguarda l’aspetto politico. E per quello letterario?

Non ho idea, come nessun altro, di cosa contengano quei manoscritti. Per indole non mi aspetto granché (nessun finale rivelato del Castello, ad esempio); ma allo stesso tempo è impossibile nascondere l’eccitazione. Tuttavia, se da un lato fremo e non vedo l’ora di saperlo, dall’altro non posso che ricordare il testamento tradito da cui tutto ciò ebbe origine, e che in questa meschina vicenda si rinnova in forma ancora più tragica e farsesca insieme. Il famoso divieto kafkiano di pubblicare le sue opere inedite.

A proposito, visto che la questione è sempre citata in modo impreciso: l’ingiunzione principale di Franz a Brod è in una lettera del 29 novembre 1922, imbustata e mai spedita: “di tutto quello che ho scritto”, annota, “sono validi solo i libri: Il verdetto, Il fuochista, La metamorfosi, Nella colonia penale, Un medico di campagna e il racconto: Il digiunatore.” Specifica che Meditazione può restare, ma non ristampata. È rigidissimo su tutto il resto, manoscritti, articoli e lettere: ordina di bruciarlo “senza eccezione” (lo ripete due volte, sottolineandolo, e dicendo che nessuno deve “ficcarci il naso” tranne Max, se proprio vuole). Trovate tutto nel volume Un altro scrivere pubblicato da Neri Pozza nel 2007.

Possiamo e dovremmo interrogarci su cosa avremmo fatto noi stessi nei panni di Max Brod di fronte a questa richiesta. Le stesse argomentazioni di Brod sono in parte convincenti e in parte no; e questo — questo sì — è un dilemma genuinamente kafkiano, perché ogni soluzione non cancella affatto la tragicità del problema; al contrario la rinnova in un gioco senza fine di interpretazioni.

Una sola cosa è certa: in questa vicenda, come in ogni lettura di Kafka, occorre una misura di pudore e di sano scetticismo. L’esatto contrario di quanto sta avvenendo con questi manoscritti inediti, qualsiasi cosa rechino; che siano l’atteso messaggio dell’Imperatore oppure, come credo, no.

Ma usare Franz come una bandiera è una cosa abietta, tanto quanto ridurlo a una lettura prestabilita e univoca. Se questo è il rischio, allora ha ragione il poeta israeliano Lali Michaeli: Kafka è così sovrannaturale che i suoi manoscritti dovrebbero essere spediti sulla Luna.

(23/05/19)