Undici appunti sugli homeless

Da più di quattro anni faccio parte di MIA, un’associazione di volontariato milanese che si occupa di persone senza dimora e gravemente emarginate. Nel tempo ho partecipato a numerose uscite di strada notturne, aiutato persone a seguire pratiche burocratiche, effettuato accompagnamenti presso ambulatori, frequentato riunioni con altre realtà di volontariato. Un uomo che conoscevo bene, un ex camionista rumeno di sessantaquattro anni, è stato picchiato ed è morto davanti all’edicola abbandonata dove dormiva; altri sono spariti senza dare notizia; qualcuno è ora in una struttura d’accoglienza; molti sono seguiti su base giornaliera dalle associazioni della rete.

Lo scopo non è fare assistenzialismo ma stabilire un rapporto di fiducia con le persone in difficoltà: informandole sui loro diritti, avvicinandole ai servizi sociali, cercando soluzioni in comune. Durante i mesi più freddi la presenza dei volontari garantisce anche un presidio di tutela contro l’ipotermia, ma fornire coperte o generi di prima necessità resta una piccola parte del lavoro; è soprattutto un modo per iniziare un dialogo.

L’ultimo dato dell’Istat parla di quasi centomila persone senza fissa dimora in Italia: va chiarito e precisato poiché tende a una sottostima; in ogni caso l’aumento resta netto. Così anche a Milano, città dove il costo degli alloggi è notoriamente fuori controllo: i nostri calcoli sul campo lo confermano, ma per accorgersene basta uno sguardo meno distratto ai marciapiedi.

Qui raccolgo alcuni appunti presi sulla scorta della mia esperienza. Resta inteso che parlo solo a titolo personale e senza pretesa di esaurire un’attività praticata con molte sensibilità diverse.

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(11/05/23)

Una grandezza minore

Tra le grandi intellettuali del Novecento, Simone Weil ha incarnato un esempio di obbedienza morale talmente estremo da condurre alla dissoluzione: per molti versi è una figura più tragica che esemplare, e pochissimi sarebbero disposti a seguirla fino in fondo. Ma nei suoi scritti, fra testimonianze della brutalità della vita operaia e lampi dal sapore paleocristiano, troviamo sempre suggestioni utili per ragionare su quanto accade oggi.

Ecco due paragrafi di La prima radice:

Tutto quel che si vorrà imporre a Hitler, non gli impedirà di sentirsi una creatura grandiosa. E soprattutto non impedirà, fra venti, cinquanta, cento o duecento anni, a un piccolo ragazzo sognatore e solitario, tedesco o no, di pensare che Hitler è stato un essere grandioso, e di desiderare con tutta l’anima un eguale destino. In questo caso, guai ai suoi contemporanei.
La sola punizione capace di punire davvero Hitler e di distogliere dal suo esempio i ragazzi affamati di grandezza che vivranno nei secoli avvenire, è una così completa trasformazione del senso della grandezza, che necessariamente lo escluda.

Altri tempi, si dirà: il saggio è del 1943, quando Hitler era ancora vivo, e fu pubblicato nel 1949, quando il Reich era stato sconfitto ma il lavoro di denazificazione in Germania procedeva in maniera alquanto superficiale. Nel suo straordinario reportage dal paese occupato, Autunno tedesco, Stig Dagerman testimonia una sofferenza collettiva fatta di rovine, cantine allagate e bambini orfani; e se «la fame è una pessima maestra», ancor più dolorosa è la presenza di gerarchi e aguzzini che la scampano soprattutto grazie ai soldi messi da parte: mentre «un giurista nazista raccoglie la legna nel bosco dove appena due anni fa i nazisti hanno impiccato dei bambini», altrove gli americani «sparano ai cinghiali con le munizioni della vittoria».

Altri tempi, certo; e altri autori. Però se siamo ancora qui a discutere di fascismo e disumanità o coglioni violenti — se ci agitiamo allibiti davanti alle turpitudini del governo e alla fierezza con cui sono rivendicate — rileggere le righe di Weil, in apparenza così distanti, può essere d’aiuto.

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(27/03/23)