Periodicamente torna il dibattito sul ruolo, i compiti e l’influenza degli intellettuali nella società contemporanea: è un incantesimo cui soggiace ogni membro della sfera intellettuale stessa — giornalisti, docenti, scrittori, critici, registi, fumettisti, attivisti… — in parte perché discutere di sé è sempre piacevole, e in parte perché c’è davvero molto da meditare al riguardo.
Qui vorrei fare un passo di lato: suggerire un laicissimo esame di coscienza relativo non a questo o quel contenuto di attualità bensì a un’impostazione formale; una serie di domande — e la prima plurale vuole includermi nella verifica — che aiuti ad abbozzare un’etica del discorso.
Premetto di avere ben chiaro il mio intellettuale tipo: in parte si evincerà dall’articolo, ma posso subito evocare qualche nume sparso: Dagerman, Berneri, Bachmann, Salvemini, Camus, Arendt, Dolci, Caleffi, Luxemburg, Melazzini, Chiaromonte, Caffi, Silone, Leogrande. Non pretendo sia l’unico modello valido, ovviamente, ma credo offra strumenti per ragionare a mente sgombra su alcuni punti.
Anche perché il problema è assai più vasto di qualsiasi mancanza individuale; lo stesso accanirsi su singoli episodi senza allargare lo sguardo è segno della difficoltà in cui ci dibattiamo, abituati come siamo ad aggredirci perdendo di vista gli interrogativi profondi e le responsabilità collettive. È una questione strutturale: la malattia strisciante di una comunità che — forse sconvolta dalla propria graduale perdita di senso, o forse perché certi atteggiamenti sono premiati — rischia di operare senza bussola. In parte probabilmente è sempre stato così: ma vale la pena rifletterci sopra di nuovo.
(13/06/23)