Trasformare il terrore in rispetto

Quando penso a una storia, o mi accingo a lavorare su un’idea che forse diventerà un abbozzo di romanzo o più probabilmente verrà cestinata dopo un po’ di pagine, provo sempre le medesime sensazioni: deferenza, paura che ogni volta sia come la prima volta – che ogni volta si debba ricominciare da capo, e non c’è quasi nulla di acquisito, e i personaggi restano sempre difficili da scolpire e i dialoghi non vanno e le parole, persino le parole più semplici ti sfuggono di mano.

Certo, non posso dimenticare il fattore esperienza. C’è la tecnica che mastico ormai da un decennio e oltre, ci sono le lezioni che ho imparato con il tempo: sono più rapido e sicuro su certi passaggi, la sintassi alla prima stesura è meno faticosa di quanto lo fosse anni fa, eccetera.

Ma questo è il mestiere, che pur essendo sacrosanto non arriva mai al punto fondamentale. La difficoltà vera giace a un livello superiore – è una questione di verità, di equilibri, di meraviglia.

Credo sia abbastanza comune e anche abbastanza tremendo, eppure in un certo senso mi sprona: l’idea che tale inquietudine non sia vana, ma appartenga al ruolo stesso dello scrittore come l’ho sempre immaginato: un essere che non dovrebbe avere alcun potere.

Uno scrittore, mi dico, non dovrebbe mirare a uno status sociale (uno su tutti, la convinzione che ogni sua parola debba essere ascoltata per forza). Al contrario, dovrebbe coltivare sempre la fragilità, anche al costo di esserne divorato: offrire senza pretendere.

Ma un regime di questo tipo è sensato? E’ realistico? O è solo l’ennesima retorica del timore sacro? In effetti si tratta di una dieta emotiva molto rigida: a nessuno piace avere un grado di paura costante in quello che fa, e il costo di sconfinare nella falsa modestia – o peggio, nelle scuse preventive per eventuali schifezze, del genere “Ehi, ve l’avevo detto che era difficile!” – è molto alto. Ciò detto, tale fragilità resta a mio avviso un correttivo essenziale.

Ed è proprio a questo punto, mentre rifletto su quell’equilibrio così sottile, che mi imbatto in una lettera di Foster Wallace a DeLillo. Non mi piace granché leggere le lettere degli scrittori, ma qui è commovente vedere l’onestà, l’amore e la dedizione con cui DFW si rivolge al vecchio maestro. Non in cerca di conferme, alleanze o tutto quello schifo tipico di autori che trasformano la propria inquietudine in uno spasmodico bisogno di riconoscimento: semplicemente, in cerca di condivisione. Di che? Di quella cosa strana, complicata e bellissima che è l’integrità: la purezza, per nulla scontata né idealizzata, nel prendersi cura delle parole come si farebbe per una creatura: e infine la necessità di andare oltre la paura, per trovare una nuova e più alta meta:

Adesso, ogni volta che provo a buttare giù qualcosa, sono pieno di paure e timori e un sacco di altre stronzate sul sentirmi inadeguato. Forse il terrore fa parte del rispetto necessario, e forse è una parte inevitabile del processo di crescita dello scrittore, o di qualsiasi altro processo si tratti, ma non può – NON può – essere l’obiettivo e il fine ultimo di quel processo. In altre parole ci deve essere un modo per trasformare il terrore in rispetto e la paura in una sorta di umiltà imperturbabile e produttiva.

Sante parole. “Ci deve essere un modo per trasformare il terrore in rispetto e la paura in una sorta di umiltà imperturbabile e produttiva.” Quale? Non ne ho idea: se se lo chiedeva Wallace, figuriamoci se posso saperlo io. Ma vale comunque la pena di cercarlo.

(26/06/12)