La rivincita virtuale dei defunti

Cosa succede quando un utente di Facebook muore? Semplice: il profilo non viene chiuso (salvo indicazioni precedenti), bensì viene trasformato in un «Memorial». Un luogo dove gli amici del defunto possono continuare a postare messaggi e rileggere i vecchi status — insomma: commemorarlo. Dopotutto, circa il 3% degli account su Facebook appartiene a deceduti, e la percentuale è destinata a salire: ogni giorno profili che testimoniavano la socialità di una persona si trasformano di colpo in tombe digitali. E non è un caso che il governo degli Stati Uniti abbia invitato, sul suo blog ufficiale, a fare testamento anche per i dati sulla Rete.

Se si desidera che la presenza post-mortem sui social network non sia più turbata o eventualmente rovinata da estranei — preservando in qualche modo il diritto all’oblio — sarà necessario nominare degli esecutori che si prenderanno cura di disattivare i profili. E darci una pace online.

La presenza della morte sul web è qualcosa con cui dobbiamo scendere a patti, anche per quanto riguarda l’elaborazione del lutto. Non è un tema nuovo: forme di celebrazione online sono databili sin dai primordi del web (nel 1996 erano già presenti quattro grandi «cimiteri virtuali»), e l’anno scorso i ricercatori Jed Brubaker e Gillian R. Hayes hanno condotto uno studio su oltre duecentomila commenti su profili MySpace di persone morte, mostrando quanto tale pratica sia diffusa.

Ma che accade alle nostre identità digitali quando moriamo? Cosa di noi sopravvive e cosa viene perduto? Partendo da questa domanda, il filosofo Patrick Stokes ha aggiunto al dibattito un punto di vista inedito. Nel suo paper Ghosts in the Machine: Do the Dead Live On in Facebook? (apparso sull’ultimo numero di «Philosophy and Technology»), sostiene che i profili di Facebook facciano persistere le persone in forma di «oggetti del dovere» — realtà morali verso cui abbiamo degli impegni. Le persone smettono di esistere, ma continuano a «esserci» come oggetti etici.

«C’è un’importante questione che risale almeno ad Aristotele» spiega il ricercatore australiano. «E cioè se i morti possano subire o meno delle offese. Di certo molti di noi agiscono come se fosse vero: ci sentiamo legati alle promesse fatte sul letto di morte, cerchiamo di non insultare chi non c’è più, e pensiamo che sia un dovere ricordarlo. Il problema è: come facciamo ad avere dei doveri verso qualcuno che non esiste? La memoria consente alle persone di persistere come enti capaci di ricevere amore. Ricordando imorti nella loro unicità, diamo loro una forma di esistenza e quindi un certo status etico».

Obiezione: è sempre stato così. Il solo atto di pregare di fronte a una tomba, o rileggere vecchie lettere e guardare vecchie fotografie, presuppone un regno di «persone» con cui interagiamo nel ricordo. Ma allora, quale sarebbe la novità introdotta dai social network?

«Certo, da un punto vista, Facebook prolunga semplicemente ciò che abbiamo sempre fatto: aiutare i morti a persistere attraverso le loro tracce — continua Stokes —. Ma è una tecnologia particolarmente adatta a questo fine, perché multidimensionale: registra e mostra la nostra presenza in un modo ricchissimo, prima impensabile. I profili di Facebook dei defunti preservano anche le loro relazioni, lasciando intatta la loro identità sociale (benché in maniera ridotta) anche quando non sono più con noi. Rimani un “amico” di qualcuno anche se è morto».

Per questo ci rivolgiamo a lui postando dei commenti: per tenere viva la fiamma della sua identità sociale, anche dopo la fine biologica. Alimentiamo così un’area ontologicamente grigia di enti, che ci porta verso nuove declinazioni dell’idea stessa di persona. E nuove declinazioni del lutto.

«I modi in cui commemoriamo i morti sono sempre stati limitati in termini di spazio e tempo: i funerali e le veglie durano solo alcune ore — puntualizza l’autore —, le tombe possono essere visitate solo fisicamente. Con Facebook invece la comunità del lutto è sempre attiva. Puoi mostrare il tuo rispetto a chi non c’è più attraverso il tuo smartphone quando sei in treno, o sul divano, o in un bar. I morti non sono più relegati in una pietra tombale: sono mescolati con i vivi sulla nostra lista di amici di Facebook, e in questo modo si impongono su di noi un po’ di più di quanto potessero farlo nel passato».

Una paradossale rivincita dei defunti, in un mondo dove lamorte è sempre più lontana dalla vita di ogni giorno — è sempre più relegata e nascosta, rispetto anche solo a qualche decennio fa. In tal senso, il titolo del saggio di Stokes echeggia il classico attacco di Gilbert Ryle al dualismo cartesiano (la mente come uno «spettro nella macchina»),ma è azzeccato anche perché gli oggetti morali, con il loro status indefinito, sembrano quasi dei fantasmi. Nell’era dell’informazione, forse abbiamo bisogno di una nuova teoria dei fantasmi? «Giusto o sbagliato che sia — riflette Strokes — siamo ancora attaccati all’idea che il nostro sé non sia riducibile alla materia, e Internet realizza questo desiderio di incorporeità. Del resto, l’idea moderna della comunicazione con i morti è nata insieme alla comunicazione elettronica. Il telegrafo e le sedute spiritiche emersero nello stesso periodo: le sedute dovevano offrire una specie di «linea del telegrafo con il morto», e i colpi sul tavolino erano dovuti a «magnetismo animale». Forse, quindi, non è affatto un mistero che molta gente parli con i defunti sui social network — credendo in apparenza che ciò che scrive verrà in qualche modo letto».

Ma la presenza della morte sul web non finisce certo con i social network generalisti. Ci sono alcuni siti, quali Cemetery.org o I-Postmortem.com, strettamente dedicati alla preservazione della memoria digitale dei defunti, fino ad arrivare a derive inquietanti, come il recente Deadsoci.al, un servizio che consente di inviare messaggi e tweet predefiniti dopo la propria morte. Macabro, ma in un certo senso anche rivelatore: l’immersione costante nei social media e l’abitudine all’accumulo di dati stanno cambiando il nostro modo di percepire la fine?

Secondo l’antropologo della Rete Stowe Boyd, la risposta è affermativa: «Il web sociale ha portato all’esplosione dei legami deboli: è possibile creare un gran numero di “amicizie continuamente parziali”, sempre sollecitate. In un contesto del genere, la perentorietà che associamo di solito alla morte è assente. Viviamo un tempo in cui Joyce Carol Vincent — una donna bella, intelligente e tutt’altro che sola — è potuta morire in un appartamento di Londra nel 2003, e rimanere lì senza che nessuno lo notasse per tre anni».

Allontanati dall’esperienza quotidiana, i morti affollano così la Rete alla ricerca del proprio spazio, stanando nuovi luoghi per non farsi dimenticare, perpetrando il legame doloroso e inevitabile che hanno con i vivi. «Secondo Lewis Mumford — conclude Boyd —, le prime città furono costruite vicino ai santuari dedicati ai defunti. Quindi non è strano che il web, questa grande città virtuale, preveda dentro di sé nuovi santuari per i morti».

[questo pezzo è stato pubblicato su “La Lettura” del “Corriere della sera”]

(29/07/12)