La Costituente perenne, ovvero la banda partigiana

[Intervento tenuto il 25 aprile a Pontecurone, su invito dell’ANPI locale]

Buongiorno a tutte, buongiorno a tutti. Grazie innanzitutto a Elio Mesenasco e Fabio Gandi per avermi invitato; grazie all’intera comunità di Pontecurone per essere qui.

Non è mai facile prendere la parola in un giorno come questo: è una grande responsabilità. Del resto, com’è ormai noto da anni, ci sono due pericoli opposti quando si tratta di celebrare il 25 aprile. Da un lato il rischio museale — si cita una pagina celebre di Calamandrei, si canta Bella ciao, si omaggia il ricordo, si passa una buona giornata ma nulla più: la Liberazione diventa un segno sul calendario che assorbe e vanifica la Resistenza stessa, e la trasmissione di un’eredità. Dall’altro c’è l’uso acritico del suo lessico: darsi da sé la medaglia di partigiani e appropriarsi — direi usurpare — non solo la memoria ma l’attiva partecipazione di quegli uomini e quelle donne come se si trattasse di una categoria applicabile un po’ ovunque: sia che la si normalizzi, sia che la si ponga fuori contesto. Nel primo caso a parole — specie in questa giornata — sono tutti Giovanni Pesce: ma appunto solo a parole; nel secondo sappiamo a cosa ha portato una distorsione della memoria durante gli anni ’70, quando i terroristi si proclamavano eredi della Resistenza.
Entrambi i rischi comportano uno svilimento non solo di questa giornata ma della vita morale di qualsiasi cittadino antifascista e almeno un poco impegnato nel tentare, come diceva Camus, di “diminuire aritmeticamente il dolore del mondo”. Non dobbiamo né limitarci alla memorialistica né confondere i piani. Dobbiamo essere lucidi, e non è facile anche per l’inevitabile fiotto di retorica — e anche di buona retorica, di emozione positiva — che ogni 25 aprile ci regala: essere di nuovo qui, dal vivo, è una cosa indubbiamente splendida. Tale bellezza, tale idea di festa è importante e va preservata, perché l’antifascismo è una forma di vita gioiosa; ma non può diventare alibi per l’assenza di riflessione.
Ora, per fare piazza pulita delle letture oleografiche e inerti della Resistenza bastano le parole di Nino Pedretti nella poesia I partigiani. Attenzione perché sono forti:

Non per ragioni di gloria
andammo in montagna a far la guerra.
Di guerra eravamo stufi, di patria anche.
Avevamo bisogno di dire:
lasciateci le mani libere,
i piedi, gli occhi, le orecchie;
lasciateci dormire nel fienile con una ragazza.
Per questo abbiamo sparato
ci siamo fatti impiccare
siamo andati al macello
piangendo nel cuore con le labbra tremanti.
Ma anche così sapevamo
che di fronte ad un boia fascista,
noi eravamo persone
e loro marionette.
E adesso che siamo morti
non rompeteci i coglioni con le cerimonie,
pensate piuttosto ai vivi
che non abbiano a perdere anche loro
la giovinezza.

Ve l’avevo detto, sono parole forti. Ma viviamo tempi scomodi e credo che qualche frase un po’ scomoda e dura possa essere utile: non per gusto della provocazione, che davvero non mi è mai interessato, bensì per scuoterci dal sonno di celebrazioni vuote, per cui domani sarà solo un altro giorno. Cerchiamo allora che la memoria partigiana ci sia di sostegno nella sua sorgiva realtà, e non travisata o mascherata a seconda dei bisogni; non foss’altro per rispetto verso chi sacrificò la propria vita per un complesso di questioni intricate, e pensò — come ci ricorda Pedretti — ai vivi, non ai morti. Erano i fascisti ad arrivare nei villaggi per massacrare la popolazione dicendo ai vecchi e ai bambini che avrebbero trucidato: “Sapete chi siamo? Noi siamo la morte”; erano i fascisti a cercare la bella fine, a coltivare il nichilismo, ad avere appunto al basco un teschio con le ossa incrociate. I partigiani erano assolutamente per la vita, anche quando dovettero uccidere; e lo erano, ripeto, per un complesso di questioni.

Naturalmente l’antifascismo ha una storia che precede i due anni e mezzo di Resistenza: da Gobetti a Matteotti ai fratelli Rosselli a Riccardo Bauer a Salvemini, è lunga la strada che anticipò quel periodo di lavacro doloroso e purificatorio. In una lettera del 1927 al Giudice istruttore di Savona, Ferruccio Parri, futuro partigiano con nome di battaglia Maurizio, scrisse:

il mio antifascismo non è fermentazione di solitaria acidità. Le mie idee sono di mille altri giovani, generosi combattenti ieri, nemici oggi del traffico di benemerenze e del baccanale di retorica che contrassegnano e colorano l’ora fascista. Indenni di responsabilità recenti, intransigenti perché disinteressati, intransigenti verso il fascismo perché intransigenti con la loro coscienza, sono questi giovani i più veri antagonisti del regime, come quelli che hanno immacolato diritto ad erigersene giudici.

Parri fu anche il primo presidente del Consiglio nel governo d’unità nazionale ed ebbe un ruolo cruciale nel passaggio post-resistenziale — quel momento che sancì la nascita della Costituzione. Vorrei però ricordare che l’implementazione della Carta nella nostra giovane Repubblica non fu affatto lineare. Sia perché — nonostante il tentativo di impiegare i partigiani nelle forze dell’ordine e nei quadri prefettizi — all’interno dell’apparato statale ci fu un travaso di figure del vecchio regime, impunite e ancora legate ai disvalori fascisti, sia perché già all’indomani del 1945 molti storici vedevano nel biennio partigiano un puro e irrazionale caos, una sorta di scontro fra bande di “rossi” e di “neri” che si ammazzavano a vicenda terrorizzando la popolazione inerme; e alcuni — forse molti — ahimè la vedono ancora così. Cancellando con ciò il contesto di una guerra mondiale, di un’occupazione straniera, di vent’anni di regime dittatoriale, di uno Stato allo sfascio e quindi di una vera e propria guerra civile, come ha chiarito definitivamente Claudio Pavone, che una parte della Resistenza interpretò anche come chance rivoluzionaria. Non tutta, certo, perché la Resistenza — ed è fondamentale rammentarlo — fu una pluralità di anime: monarchici, cattolici, azionisti, socialisti, anarchici, cani sciolti e così via.
Ma per tutti fu pratica costituente in atto, pratica politica e giuridica e intimamente esistenziale. Ecco quello su cui vorrei insistere. Attraverso la vita partigiana essi sperimentarono in prima persona una forma di comunità nuova, inventandosela giorno per giorno nelle difficoltà immani, ma che non fu affatto priva di letizia e di bellezza: sì, la lotta non era soltanto emancipazione dal fascismo, come i manuali ricordano, o contro l’invasore nazista, ma anche ricerca immediata di felicità: “lasciateci le mani libere, i piedi, gli occhi, le orecchie”, come diceva Pedretti. Un’ebbrezza, un gaudio nel ritrovare la propria vita, la propria libertà, e impegnarla attivamente nei confronti di un ideale: come scrisse l’organo del movimento femminile di Giustizia e libertà nel 1945, “Non è soltanto il “finalmente si può parlare senza pericolo” dei quarantacinque giorni, bensì “finalmente si può fare qualcosa e si può farlo a costo di sacrifici, con pericolo”.

Vorrei parlarvi a tal proposito di Beppe Fenoglio, che era piemontese come voi e di cui ricorre quest’anno, come sapete, il centenario della nascita. Il romanzo da me più amato di Fenoglio, e non sono certo l’unico a provare tale particolare affetto, è Una questione privata. Narra la storia di un partigiano, Milton, ossessionato dal suo amore per una ragazza, Fulvia, e dal presunto rapporto che ha con un suo caro amico — Giorgio. Per cercare di saperne di più si impegna in una missione singolare, una questione appunto privata, “nel fitto”, diceva Fenoglio, della guerra; mostrando con rinfrancante nitore che la Resistenza non fu soltanto una questione di ideali politici. Fu anche una questione affettiva, dentro la quale si mescolavano desideri e passioni che la guerra non poteva cancellare: “Le cose di prima a dopo, a dopo!”, commenta il suo compagno Ivan; ma Milton ci dimostra che “le cose di prima” — fra cui l’amore — non erano del tutto rimandabili. Un aspetto prezioso della lotta partigiana fu, nella sua inevitabile crudezza, la riluttanza a trasformarsi in mero automatismo guerriero: errori in tal senso ci furono, ma come ho già detto questo culto della violenza era ed è roba di fascisti. E glielo lasciamo volentieri.
Di più. I giovani e le giovani che salirono in montagna o si unirono nei gruppi d’azione in città non erano tutti militanti formati e coscienti, né sapevano di star creando il mito fondativo di una Repubblica. Anzi. Alcuni erano semplicemente sbandati o renitenti alla leva di Salò. Altri non sapevano che altro fare. Altri ancora cambiarono idea all’ultimo o seguirono un amico, o si lasciarono ispirare dal senso d’avventura, e così via. Tutti intuirono però dove stava il bene — la Resistenza partigiana — e dove il male — il nazifascismo. Sapevano che il loro uso delle armi era di carattere difensivo e contenuto, e non aggressivo e illimitato come quello degli avversari; era un mezzo, non un fine. Avevano un impulso etico ma forgiarono la loro morale strada facendo, giorno dopo giorno, educandosi in maniera indipendente e certo non scevra di sbagli. E questo ce li rende ancor più cari e vicini, se possibile: ce li rende fraterni; fratelli e sorelle maggiori cui guardare con ammirazione e prendere da esempio.
Insomma, il 25 aprile — data che segna la fine di una guerra ma anche la fine di un’epoca e di una scuola di vita per molti — non deve farci dimenticare il vissuto dei singoli, delle esistenze concrete di chi, per mille ragioni, scelse e visse quell’esperienza inimitabile donandoci la libertà di cui ora facciamo a volte così cattivo uso: ancora Parri, nel suo rapporto splendido sui Venti mesi di guerra partigiana, spiega che il movimento “era diventato ormai una specie di gramigna che non si sradica più: battuta una formazione in una zona, se ne riformava un’altra nella zona vicina e poco dopo risorgeva nella zona stessa ove prima era stata dispersa”. E badate che non era per nulla facile, anche perché non c’era internet, e i collegamenti erano estremamente difficili, e ogni giorno una ventura.

Ora nel libro di Fenoglio come in altri, penso ad esempio ai Piccoli maestri di Meneghello, spicca proprio questa figura molto particolare: la formazione, e cioè banda. La banda partigiana è un’organizzazione che nasce spesso spontanea, fondata su rapporti fortissimi di solidarietà interna e divisione autonoma dei compiti; certo poi verrà spesso inquadrata in battaglioni, brigate e così via, come racconta sempre bene Parri; in particolare quando è emanazione diretta di un partito.
Ma comunque sia e in quanto tale è già una piccola cellula politica, e un laboratorio di autogestione diretta, spesso molto gelosa della propria identità e talora anche in rivalità nei confronti di altre bande, sia per ragioni politiche che personali. Ed è quanto mai interessante che la sua vera radice stia appunto in un terreno affettivo. Come ricorda Ada Gobetti nel suo Diario partigiano,

proprio l’amicizia — legame di solidarietà, fondato non su comunanza di sangue, né di patria, né di tradizione intellettuale, ma sul semplice rapporto umano del sentirsi uno con uno tra molti — m’è parso il significato intimo, il segno della nostra battaglia. E forse lo è stato veramente. E soltanto se riusciremo a salvarla, a perfezionarla o a ricrearla al disopra di tanti errori e di tanti smarrimenti, se riusciremo a capire che questa unità, quest’amicizia non è stata e non dev’essere solo un mezzo per raggiungere qualche altra cosa, ma è un valore in se stessa, perché in essa forse è il senso dell’uomo — soltanto allora potremo ripensare al nostro passato e rivedere il volto dei nostri amici, vivi e morti, senza malinconia e senza disperazione.

Ciò non significa che la banda fosse un paradiso di democrazia diretta. Il carisma dei capi poteva diventare autorità eccessiva; gli screzi nascevano come in ogni piccola comunità; c’era un tensione irrisolta fra l’obbedienza doverosa e il desiderio di improvvisazione o l’indisciplina. Ma le relazioni fra partigiani erano mille volte più egualitarie di quelle dell’odiatissimo esercito, e si fondavano su un patto di libera adesione. Come dice la canzone, “il bersagliere ha cento penne e l’alpino ne ha una sola, il partigiano ne ha nessuna e sta sui monti a guerreggiar”.

Questa volontà istintiva di un mondo migliore per tutti, e libero per tutti, dopo vent’anni di oppressione, non va dimenticato; non è secondario per capire la varietà di motivazioni che spinse ragazzi e ragazze a superare momenti mostruosi come l’inverno del 1944 e resistere, appunto: resistere al tradimento; resistere ai massacri di civili, alle stragi nazifasciste; resistere ai rastrellamenti, resistere alla fatica, alla perdita degli amici e compagni, al rischio concretissimo della morte, al dolore fisico e mentale… E insieme a loro, un intero popolo.
Prendo un esempio a me caro e geograficamente a voi abbastanza vicino. Quando la zona libera di Varzi in Lombardia fu invasa dalla repressione i partigiani tornarono clandestini e si nascosero nelle cosiddette buche, tane di sei metri quadri mimetizzate con terra fradicia ed erba. “Ed è in questo momento”, scrive Nunzia Augeri nel suo Le repubbliche partigiane “che si realizza la vittoria più significativa dell’esercito partigiano: non contro i nazifascisti, ma contro le difficoltà immani, il freddo e la fame, la disperazione e la paura. Nascosti nei casolari e nelle ‘buche’ i partigiani non possono che affidarsi completamente al popolo. Ed è un intero popolo che li aiuta, li sfama, li protegge e con loro risorgerà e insorgerà nella primavera successiva”.

Sì, perché non solo chi combatté con le armi — gesto assolutamente indispensabile, beninteso — fu parte della Resistenza; ma anche chi si oppose al nemico o difese i partigiani stessi utilizzando i mezzi civili e la nonviolenza — una parola che troppo spesso viene scambiata per indifferenza o quietismo, e che invece implica un coraggio ancora maggiore, se possibile: il coraggio dei disarmati. C’è un bellissimo aneddoto al riguardo, che mi sembra esemplificativo di questo immenso potere nonviolento, tanto più perché proviene da una donna, e una donna anziana. È tratto da A colpi di cuore di Anna Bravo, una storica e militante femminista:

trent’anni prima una contadina delle Langhe, che durante un rastrellamento avevo lasciato che i partigiani nascondessero le armi sotto la paglia della sua stalla, vede arrivare i tedeschi, e nel momento in cui si affacciano alla porta si accuccia a urinare proprio in quel punto dello strame — e li scaccia protestando rabbiosamente. Si salva così, e salva i partigiani, una donna anziana, inerme, sola, che sa che i tedeschi usano trafiggere coi forconi le balle di fieno e la paglia per scovare persone e armi, sa che le chiederanno notizie sulla banda, e in una frazione di secondo decide di giocare il doppio tabù del suo corpo anziano parzialmente nudo, e del fiotto di urina emesso davanti a occhi maschili. Genio, cos’altro? Solo che di fronte a episodi come questi la cultura “patriarcale” dell’antifascismo diventa cieca e muta, e anche oggi qualcuno li fa rientrare nell’economia della sopravvivenza, la tradizionale pratica di chi si trova in condizioni di vulnerabilità e deve attrezzarsi a interpretare l’altro. E con questo? È lucidità nel vedere l’ordine maschile com’è, pieno di punti ciechi e di paura del corpo sessuato. È un attacco a alcune connessioni basilari, donna = sprovvedutezza, corpo = vergogna, e l’espressione di una infinita lontananza dal registro eroico-esibitivo che altre hanno condiviso. La politica comincia così.

La politica, una nuova politica, comincia così.

Torniamo allora alla banda. Il saggista Fausto Romitelli, in un libro dal titolo bellissimo — La felicità dei partigiani e la nostra — lo dice chiaramente: “Il punto è che nell’insistere sul ruolo di martiri si finisce per trascurare il loro coraggio, le motivazioni che li hanno resi capaci di decidere del loro destino e quindi anche del nostro. Mentre è proprio qui che va cercata e riabilitata come merita quella che può dirsi la loro felicità, la felicità di soggetti che sono riusciti a pensare e dirigere le loro passioni, non restandovi assoggettati, fino a creare un momento politico unico, dal quale resta sempre da imparare.” E aggiunge, parlando de I piccoli maestri di Meneghello, che l’esperienza partigiana “non si fondava su certezze, bensì su misteri da affrontare”.
Ecco il punto. La vita in banda del partigiano era costantemente appesa a un filo e gli atti di coraggio e abnegazione cui si sottopose furono fenomenali; pure, erano vissuti con una profonda sobrietà del dovere. Basta rileggere una qualsiasi delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana per rimanere attoniti e veder tralucere — in questi tempi di fortunata pace — un vero e splendido mistero: come poterono queste persone risollevarsi e auto-educarsi con simile rapidità e fermezza dopo vent’anni di fascismo? Come riuscirono a superare difficoltà per noi inimmaginabili? In parte è spiegabile; in parte il mistero resta.

E noi, che possiamo trarre da tutto ciò? Come interrogare il mistero? Resta sempre da imparare dalla banda partigiana, dice Romitelli. Ma cosa? Innanzitutto l’idea che organizzarsi in piccole comunità votate al bene comune è un atto rivoluzionario, soprattutto in una società in cui l’idea della competizione reciproca e dell’altro come nemico sembra essere la parola d’ordine. Durante la pandemia abbiamo visto brigate popolari che hanno portato aiuto dove l’aiuto statale non arrivava; reti di autogestione e mutuo soccorso che hanno creato sostentamento economico mentre lo Stato — che ha ovviamente dei tempi molto più lunghi — faticava a giungere, specie in zone dimenticate o remote. Nel mezzo del terrore e della confusione fioriva anche un altruismo sincero che era già politica: non lasciamo che questi fiori appassiscano.

Tornando alla nostra storia: dal laboratorio politico delle bande e dei Comitati di liberazione nazionale si passò, a vittoria avvenuta, alla Costituente; e da essa alla Costituzione, stella polare dell’ordinamento democratico e repubblicano. Di essa vorrei ricordare due articoli in particolare, il primo e il quarantanovesimo: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.”; “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.”

Il soggetto politico dell’azione e della trasformazione nazionale sono dunque i cittadini, il popolo; non la massa indistinta il cui consenso viene cercato a colpi di retorica dai populisti, ma una comunità di cittadini informati e attenti. La Costituzione prevede che essi possano associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico eccetera — ma la sovranità, è bene ribadirlo, non appartiene ai partiti. Appartiene alle persone.
Questo diritto è di converso un dovere profondo — bisognerebbe davvero rileggere Mazzini e i suoi Doveri dell’uomo — e che ahimè è stato più volte disatteso: da una parte con il disimpegno e il menefreghismo del singolo, dall’altra con una politica partitica inefficiente cui è stata conferita una sorta di delega morale al mostrarsi deteriori. Non faccio di tutta l’erba un fascio, ovviamente, ma è indubbio che la situazione sia spiacevole da molti punti di vista, e da molto tempo.
E ciò nonostante noi siamo qui, insieme.

E badate bene, senza la tensione con il polo creativo — senza l’idea che la Costituzione necessita ogni volta di energie nuove e costituenti — e dunque di nuove libertà, di sempre nuove libertà e idee, e di dialogo, e di impegno concreto relativamente ai problemi di oggi, e non ai problemi di ieri — allora torniamo alla visione museale che può accontentare qualche politico perché è comoda, perché non crea alcuna conflittualità e conduce tranquillamente alla sagra — e poi diritto all’oblio. Ma non è di questo che abbiamo bisogno. Credo sia un insulto ai partigiani festeggiare la Liberazione senza rendere conto del processo doloroso e misterioso che ci ha condotti a questo giorno: limitarsi al momento della celebrazione senza trarne un solido orientamento di prassi morale. Ci vorrebbero più pudore e più impegno, oltre che coscienza storica: anche di questo si nutre una democrazia matura.
Nicola Chiaromonte, un grande intellettuale amico di Camus e fondatore di una bella rivista di nome Tempo presente, scrisse: “democrazia non è soltanto il regime in cui il privato cittadino è garantito dalle leggi contro gli arbitrii del potere e ha una più o meno grande libertà di esprimersi. Questo può infatti darsi anche in un regime autocratico un po’ illuminato. Ma democrazia è propriamente quel regime di convivenza nel quale è dato al cittadino nutrire speranza ragionevole di poter influire sul destino comune, di contare nella collettività come una presenza attiva e non come una cifra, quindi di poter far valere la propria libertà contro le necessità e le inerzie sociali.”
Torniamo ancora una volta al centro della discussione: quel cittadino — quella cittadina — cui solo la Resistenza ha ridato voce in capitolo nella trasformazione attiva della collettività verso una maggiore giustizia sociale, verso una maggiore libertà; gli ideali appunto che i partigiani, coscientemente o istintivamente, incarnavano e ci ricordano ogni giorno — non solo il 25 aprile.

Siamo stanchi, certo. Siamo immersi da anni in uno stato di allerta che sembra non finire mai e che ci rende facilmente più impauriti ed egoisti; leggiamo ogni giorno di una guerra atroce che si consuma al confine dell’Europa e inevitabilmente ci riguarda per moltissimi motivi. Il dialogo anche fra noi degenera nel mero conflitto. Non sono tempi facili. Qualsiasi idea si abbia al riguardo, io spero che questa giornata funga anche come un falò cui riscaldarsi per trarre di nuovo forza e combattere almeno il potere in noi e fuori di noi che ci rende peggiori, ricordando che la scelta partigiana fu innanzitutto una scelta di altruismo — la priorità data all’altro rispetto a se stessi. Spesso ciecamente, in modo incolto se così posso dire, e tanto più genuino. A costo del dolore, e certo anche a costo della morte.
Di nuovo Chiaromonte scrisse: “Ciò che dobbiamo affrontare è il potere esercitato su ognuno di noi, che ci spoglia di molte cose oltre all’amore per il prossimo. Non è stato cancellato soltanto un sentimento soggettivo come l’amore, ma piuttosto quell’evidenza originaria per cui c’è qualcosa in comune tra due uomini per il solo fatto che esistono, la vera radice della società e della giustizia.”
Davanti a una simile querela non c’è molto altro da aggiungere; c’è sempre, e ogni giornata come questa ce lo rammenta, molto da fare — senza retorica, senza parlarsi addosso.
In effetti ho parlato fin troppo, ed è sempre bene chiudere con le parole di un combattente per la libertà. Una combattente, in particolare: vorrei che l’esempio di questo 25 aprile sia Teresa Cirio, partigiana torinese con un ruolo di primissimo piano — una delle dodici raccontate in quello splendido libro che è La resistenza taciuta di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina. Ricordo ancora che la storia delle donne della Resistenza è ancora purtroppo sotto-raccontata, e tende a obliterare per maschilismo un contributo che non fu soltanto di secondaria manovalanza, bensì assolutamente centrale, ed esposto anche all’ulteriore rischio — se catturate — della violenza carnale. “I valori e i caratteri del mondo femminile, sviluppatisi durante la millenaria soggezione e in risposta e a questa — così le curatrici — diedero alla Resistenza una ricchezza e una completezza che non avrebbero altrimenti raggiunto. Fra questi caratteri […] risaltano la spontaneità, il rifiuto del calcolo, il senso di giustizia, la capacità appassionata di amare e soffrire, il rispetto antiretorico della verità dei fatti e dei sentimenti (“avevamo paura”, dichiarano candidamente), la generosità comunicativa, la modestia, la pietà”.
Bene, dunque: Teresa Cirio. Mentre è in viaggio per una missione, il suo treno viene bombardato. Lei si lancia giù dal vagone e copre la valigia piena di documenti con il proprio corpo; e proseguo con le sue parole semplici e vivide, che gettano una luce tutta nuova su eventi che abbiamo sentito raccontare tante volte: “Così — dicevo — colpiscono me, ma almeno salvo quello [cioè il doppio fondo con le carte]. Mi butto nel prato. Era primavera e nel prato c’erano delle viole, delle viole! E io… Talmente mi piace la natura… mi faccio un bel mazzetto, durante tutto il bombardamento. E poi arrivo sul treno. Tutti mi han guardata così… Perché io me ne arrivo lì, con le mie viole, tutta contenta. Si rischiava la morte, però talmente c’era la gioia di vivere! Delle volte io leggo che i compagni erano tetri. Non è vero. Eravamo sereni. Anzi, eravamo proprio felici, perché sapevamo che facevamo una cosa molto importante.”

Evviva le bande partigiane, evviva la Resistenza.

(26/04/22)