I minimi doveri del lettore

Chardin, Le Philosophe Lisant

[questo intervento è stato letto il 19 ottobre 2013 al Writers Festival di Milano; nell’immagine, un dettaglio de “Le philosophe lisant” di Chardin]

Vorrei cominciare con tre rassicurazioni sul titolo di questo incontro.

La prima: non voglio indicare doveri di letture particolari. Continuo a pensare che ognuno sia libero di leggere quel che gli pare — il mio intervento si concentrerà sull’atto, non sull’oggetto della lettura.

La seconda: l’idea di parlare dei doveri non sopprime in alcun modo i diritti. Tutti conoscono i “diritti imperscrittibili del lettore” proposti da Daniel Pennac: il diritto di non leggere, di saltare le pagine, di non finire un libro, di rileggere, e così via. Ecco: restano sacrosanti.

La terza e ultima rassicurazione: non parlerò da scrittore, bensì da lettore (tranne in un punto che segnalerò dovutamente). Prima di imparare a raccontare delle storie ho imparato a leggerle e ad amarle — questa a mio avviso resta una condizione essenziale del mio lavoro. Dove non c’è amore, non c’è creazione. Qui proverò a difendere le ragioni della responsabilità che questo amore ci impone.

Cominciamo con un’osservazione. La lettura sta diventando sempre di più un atto pubblico. È come un’inversione della tendenza che cominciò con sant’Ambrogio: la lettura silenziosa, interiorizzata, assolutamente privata. Oggi invece il modo in cui leggiamo è cambiato non solo a livello psicologico e tecnologico, ma anche sociologico. La lettura non è più soltanto un’attività solitaria e al limite condivisa con una piccola cerchia di amici e interessati, ma si lega all’idea del commento pubblico: in questo è solo una conseguenza del più ampio calderone del social web, ma è una conseguenza interessante.

Da lettore mi trasformo quasi per diritto, quasi automaticamente in recensore. C’è insomma una sovrapposizione fra l’idea di leggere e di parlare di ciò che si è letto: una sorta di coazione al commento e alla condivisione pubblica: quasi fosse la garanzia di avvenuta lettura. Mettere la copertina del libro che sto leggendo su Facebook, segnarlo in lettura su Anobii, twittarne il titolo con un commento. E dato che tale prassi di “lettura in comune” è così semplice e diffusa, credo sia importante ricordare anche i doveri che si porta con sé — i minimi doveri per una buona lettura.

Ma prima, ci si potrebbe chiedere ragionevolmente: perché è tanto importante leggere bene? Non è una domanda così sciocca come sembra a prima vista. Ci sono diversi motivi — di ordine teorico, pedagogico, pratico — ma vorrei soffermarmi su quello meno discusso: quello puramente edonistico. Leggere con attenzione massimizza il piacere del testo, per dirla con Roland Barthes. Leggere rispettando il testo e l’autore senza esserne schiavi, e facendo in modo che la nostra “lettura sociale” ne alimenti dell’altra: curiosa, libera, ma anche responsabile e non capziosa.

Due anni fa i ragazzi di Finzioni, una rivista digitale di “lettura creativa”, pubblicarono un ebook di successo — il famoso Libretto rosa. Si trattava di una bella rappresaglia contro l’idea, ancora troppo diffusa in questo paese, della lettura come un bene puramente morale o soltanto educativo: tra il fuoco della peggiore editoria industriale — che pensa al pubblico come una mandria di scemi — e della critica più parruccona, quelli di Finzioni rivendicavano in primo luogo il diritto alla lettura come piacere. Sono completamente d’accordo. Ma, per quanto possa essere fastidioso, la rivoluzione morbida e rosa va completata con un piccolo richiamo all’ordine.

Proprio come seguendo con precisione delle norme ci si diverte di più — nessuno giocherebbe a pallone senza alcune regole — così vorrei che con queste semplicissime (ma spesso dimenticate) norme di buon senso il lettore possa leggere con maggiore godimento — e insieme assicurare che anche altri (la natura sociale) lo possano fare.

Certo, non è semplice. Il tempo è poco, e la nostra attenzione — spezzettata in mille rivoli — sembra diminuire sempre di più. Me ne accorgo in prima persona: pur leggendo sempre molto e con passione (anche per lavoro), devo fare uno sforzo considerevole per rimanere concentrato — fare molta più fatica, in un certo senso, rispetto a qualche anno fa. Le ragioni per questa distrazione sono varie, ne hanno scritto in molti, e non c’è ancora una conclusione certa. Di sicuro l’abitudine al multitasking e alla molteplicità di segnali che abbiamo appreso dalla rete è un punto cruciale. Ogni testo è ora in concorrenza con moltissimi altri testi; e la priorità quasi assiologica del libro come contenitore per eccellenza è oggi in discussione. La stessa lettura, del resto, è ora immersa in una dimensione pubblica cui dobbiamo ancora abituarci. Che fare?

Nel suo classico Una lettura ben fatta — il primo dei saggi contenuti in Nessuna passione spenta — George Steiner fornisce delle suggestioni che vanno in questo senso. Lo spunto è il personaggio del quadro di Chardin Le philosophe lisant: un uomo che per leggere si veste di tutto punto, cappello compreso. La clessidra al suo fianco segna la brevità del tempo di fronte all’immensità dei libri, ma anche la persistenza della parola attraverso i secoli. E infine, la penna: una penna d’oca nel calamaio, che secondo Steiner “simboleggia l’obbligo primordiale di rispondere al richiamo del libro. Definisce la lettura come un’azione.”

Leggere non è un esercizio passivo, la mera computazione di segni scritti: leggere è reagire: che si tratti di copiare una citazione, emendare un refuso o aggiungere una glossa. La lettura ben fatta, secondo Steiner, è un “coinvolgimento totale”, e “l’intellettuale è, semplicemente, un essere umano che legge i libri con una matita in mano”.

Ma Steiner è un nostalgico elitario: rispetto ai tempi di Chardin, oggi i nostri modi di leggere sono molto diversi. Sono “vaghi e irriverenti”. Il libro non ci guida più, non è più un’esperienza personale, non è rilegato come quello del philosophe — è addirittura diventato immateriale — e non abbiamo nemmeno più le capacità, la cultura o la memoria per annotare dei commenti sensati. La nostra attenzione è sfinita. Siamo “lettori a tempo parziale, lettori a metà”. Come metterci una pezza? Occorre formare dei nuovi lettori, dei lettori capaci di immergersi nel testo senza essere specialisti universitari: e Steiner conclude sognando — torniamo ancora lì — delle “scuole di lettura creativa”.

L’intellettuale americano è molto severo. Oggi è difficile essere un tutt’uno così intimo con un libro: non vaghiamo più nella “vigna del testo”, per usare la splendida espressione di Ivan Illich. Al più è un privilegio dedicato a chi ha davvero molto tempo libero, e in questo intervento vorrei indirizzarmi al lettore comune — a chi, molto semplicemente, ama leggere e lo fa come e quando può.

Ciò detto, Steiner ci consegna un suggerimento importante e che merita di essere sviluppato. Lui rabbrividirebbe di fronte a questo paragone, ma la nascita e crescita degli ambienti digitali di social reading è un nuovo modo di riattivare l’idea della lettura come risposta. Il problema — e qui sono io a fare l’elitario nostalgico — è che molto spesso ci si trovano scritte delle boiate pazzesche, e si finisce semplicemente a litigare sul nulla. Il che mi sembra un’occasione sprecata, perché scambia il mezzo — uno strumento di dialogo — con il fine: alimentare non so bene quale rancore o risentimento. Per questo trovo necessario parlare di doveri e responsabilità, oltre che di diritti. Senza moralismo, e tenendo bene a mente il fine di cui sopra: massimizzare il piacere comune.

E allora qual è il dovere essenziale del lettore? Lo sintetizzerei così: il rispetto nei confronti del testo. Sembra un assunto banale, ma lo spiega bene Umberto Eco nei Limiti dell’interpretazione: un’opera può essere “aperta” a piacimento, ma non può oltrepassare alcuni limiti — in primo luogo il livello grammaticale delle frasi.

Immagino suonerà ovvio, ma nella pratica quotidiana non lo è affatto; e simili fraintendimenti sono all’ordine del giorno. Perché tutti, a volte, leggiamo male — e nell’atto di leggere male non c’entra la qualità del testo: lo facciamo per fretta, per noia, per rabbia, per pregiudizio, per disattenzione. Paradossalmente, si dovrebbe leggere bene anche ciò che non ci piace: per abbandonarlo o ripudiarlo a ragion veduta.

Questo, e non altro, è il dovere minimale di rispettare il testo. Non sentirlo come onnipotente — un libro non dà obblighi — ma nemmeno sentirsi onnipotenti di fronte ad esso. Non basta dire: “L’ho letto, dunque ho ragione nel dire quel che mi pare”. Nessuno ha sempre ragione — né i lettori né i clienti.

Ci possono essere letture stupide, fuorvianti, ipocrite, con secondi fini. Ci possono essere letture senza amore, svogliate, che sviliscono il libro. Naturalmente tutto questo è in qualche modo dato per scontato: fa parte del destino ambiguo del testo. Ma quando è fatto in cattiva fede e con disonestà intellettuale, ammazza un intero scenario: perché compie un peccato che da lettore — e non da scrittore — trovo particolarmente irritante: cercare di sostituirsi al testo. Pensare che la propria lettura sia l’unica possibile, assurga al ruolo di interpretazione finale, e il proprio commento altrettanto importante (se non più importante) dell’opera originale. Il che, nelle maglie della rete sociale, riverbera l’errore potenzialmente all’infinito.

Purtroppo è molto facile scambiare questo atteggiamento con la libertà della critica, e trincerarsi dietro il diritto di dire ciò che si pare. (Cui corrisponde, ma si tende a dimenticarlo, il diritto altrui di considerarti un sommo pirla).

Ecco, ora parlerò per un istante da scrittore: vi avevo promesso che l’avrei segnalato. C’è una notevole mancanza di proporzione fra la fatica di scrivere un libro e la semplicità con cui si può distruggerlo — “Fa schifo! L’autore è un incapace!”, e così via. Ricorda il piromane alle prese con una foresta: una tanica di benzina e un accendino per radere al suolo un mondo che è stato edificato con (ci si augura) pazienza e devozione. Attenzione: questo non significa che ogni albero vada difeso — altrimenti non vivremmo in città ma in giungle di testi inutili: e l’esercizio della critica, anche spietata, è fondamentale.

Significa però che il lettore, quando legge — e proprio perché leggere è un gesto che spesso si traduce in altro testo, altri contenuti, altri commenti — ha dei doveri, proprio come lo scrittore.

Il punto è che i libri si fanno in due: anche l’opera più splendida è nulla senza un occhio appassionato che la ami. Scrive Jean-Luc Nancy in Corpus: “Che lo vogliamo o meno, dei corpi si toccano su questa pagina o, meglio, essa è il contatto (della mia mano che scrive, delle vostre che tengono il libro). Questo toccare è infinitamente sviato, differito — macchine, trasporti, fotocopie, occhi, altre mani si sono interposte — ma resta l’infimo granello ostinato ed effimero, la polvere infinitesimale di un contatto ovunque interrotto e ovunque cercato.”

Vedete com’è ostinata, una pagina? Quanto desiderio contiene? Cercare di rendere giustizia a questo contatto, a questo rapporto quasi magico che c’è fra scrive e chi legge, significa celebrare la gloria del testo — dare una mano a creare l’opera. A massimizzare il piacere di entrambi; oppure a rifiutarlo coscientemente.

Ora qualche esempio di corollario del dovere base. Non iniziare un libro pensando già che non ci piacerà. Limitare per quanto possibile i preconcetti nei confronti dello scrittore o della corrente cui appartiene (altrimenti, perché abbiamo deciso di leggerlo?) o prepararsi a vederli confutati. Concedergli il giusto grado di attenzione — o quantomeno riconoscere quando non gli si è tributata sufficiente attenzione: leggere male è un diritto, ma non una scusa. E soprattutto: lasciarsi incantare e sorprendere, se ciò deve accadere. Tenersi, insomma, il più possibile aperti. Re-imparare a leggere bene — a esercitare attivamente il dovere di leggere meglio — non è una cosa scontata e non significa costringerci ad amare ciò che proprio non amiamo: a me non desta alcuna preoccupazione se una persona mi dice che Flaubert gli fa schifo. E che problema c’è? Mi preoccupo se non sa argomentare questo giudizio, o se lo sostiene per partito preso. E mi preoccupo ancora di più se una persona mi dice di adorare Flaubert senza averlo aperto, perché — be’, perché Flaubert piace a tutti, no?

Su questo vorrei essere molto chiaro. I “minimi doveri” non vogliono chiudervi in una prigione, bensì l’esatto opposto: ridare linfa alla lettura come atto di libertà assoluta. Purtroppo veniamo educati al contrario, cioè a considerarla un dovere nel nome di una più alta ed elusiva entità chiamata “cultura” — come se la cultura fosse soltanto un ingrediente del nostro status di persone civilizzate: sapere a memoria L’infinito di Leopardi, avere quel certo numero di libri sullo scaffale.

Ma non è così. E non dovremmo sprecare la nostra libertà impiegandola per sentirci più in gamba o più furbi del libro che abbiamo di fronte. Leggere con odio, con spirito di distruzione, non ha davvero senso: se non quello — molto meschino, e paragonabile al concetto altrettanto meschino che hanno alcuni scrittori del proprio lavoro — di gonfiare il proprio ego. Che è il contrario di ciò che dovrebbe nascere dall’incontro fra un’opera e il suo fruitore: il piacere fondato sulla reciprocità e sulla gioia della scoperta — o anche, naturalmente, la noia e il rifiuto. Esattamente come in una relazione fra corpi.

L’opera d’arte, diceva Sartre in Che cos’è la letteratura, è fondamentalmente un appello. Un richiamo. Io direi: un’offerta. Un testo si offre al lettore senza costringerlo, e senza un lettore resta carta morta. Ma anche un lettore senza testo è una contraddizione in termini. Riattivare il bisogno reciproco di dovere e onestà intellettuale, persino di amore, che esiste fra chi legge e chi scrive, è la cosa più importante che si possa fare per tutto il sistema che vi gira attorno. Per la scuola, l’editoria, l’attività autoriale, la lettura, la memoria, lo studio.

Per dirla con Sartre: “La lettura è dunque un esercizio di generosità; e lo scrittore pretende dal lettore non l’applicazione di una libertà astratta, ma il dono di tutto il suo essere, con le sue passioni, e i suoi pregiudizi, le sue simpatie, il suo temperamento sessuale, la sua scala di valori.” O ancora più in breve, e ancora meglio: “Siete perfettamente liberi di lasciare questo libro sul tavolo. Ma se l’aprite ne assumete la responsabilità.”

(22/10/13)