I miei stupidi intenti

Ho letto con grande ammirazione e meraviglia I miei stupidi intenti, l’esordio del venticinquenne Bernardo Zannoni. Di primo acchito appare come un romanzo di formazione con una faina — Archy — quale protagonista e narratore, nutrito dalla sua progressiva scoperta del mondo e degli altri: ma sarebbe una descrizione assai riduttiva.

Di fatto Zannoni non usa gli animali come simboli, né li umanizza superficialmente: mostra anzi la faglia che li separa da noi e il tentativo di Archy di superarla per attingere a una felicità e una crudeltà diverse: una quest dove l’oggetto da conquistare è innanzitutto il significato. (E niente può difendere la nostra fragile faina, come chiunque, dal prezzo da pagare in cambio del significato: essere figlio di Dio è affare arduo, materia di tragedia).

Lungo tale sentiero Zannoni rinnova un dispositivo antico e nobile, che va dalle fiabe alle storie di animali di Kafka, attraverso cui riscopriamo il bosco, la neve, la fame, l’amore, la brama, la violenza, Dio e la morte come se ci colpissero per la prima volta, intatto il loro mistero, ribattezzati da una lingua limpida, tesa ed essenziale.

Davvero non c’è nulla dell’esordiente in questo miracoloso romanzo che Marco Missiroli ha giustamente definito “in stato di grazia”: c’è invece una saggezza remota e profonda, di sapore biblico; c’è il segno inequivocabile della letteratura. Tutte le mie congratulazioni, tutti i miei auguri.

(10/09/21)