I dannati della metropoli

Ho letto di recente I dannati della metropoli di Andrea Staid – un gran bel lavoro antropologico militante sulla piccola criminalità dei migranti, quasi sempre costretti all’illegalità dopo tentativi di inserimento più volte frustrati dalla burocrazia o dalle condizioni disperate in cui versano:

La città legittima pronuncia parole di paura e sospetto verso quella illegittima, ma ricorre a quest’ultima per un gran numero di servizi e prestazioni: dal lavoro domestico a quello in nero dei cantieri, dalla domanda dei vari tipi di prostituzione a quella di stupefacenti, gioco d’azzardo o credito illegale. La città illegittima è titolare di un’offerta di servizi la cui clientela è costituita in gran parte da membri della società legittima.

Staid raccoglie un gran numero di testimonianze dirette da persone che sono state rinchiuse nei CIE, hanno vissuto per strada, sono escluse dalla società per diversi motivi. Particolare rilievo è dato allo stabile di viale Bligny 42 a Milano – un “fortino dello spaccio” per le semplificazioni della stampa mainstream, e che invece Staid svela dando voce agli inquilini che ci vivono da anni.

L’aspetto più pregevole del saggio è che non si limita a mettere insieme queste storie, ma ne svela il sottinteso drammatico: “la necessità di chiarire i nessi tra strutture generali di potere e forme di soggettività, capire come e perché si sceglie di delinquere e di ribellarsi ai soprusi quotidiani”. Dove uno sguardo superficiale vede solo una ferita sul tessuto metropolitano pacificato, l’approfondimento etnografico e sociologico si sofferma sulla drammatica diseguaglianza dei rapporti in campo, lo sfruttamento all’ordine del giorno e il delirio burocratico e legislativo (la Bossi-Fini in primis) che affossa molte speranze. Questo costringe anche a un necessario, per quanto scomodo, lavoro di ripartizione della responsabilità e del cumulo di violenza o illegalità che spesso esplode nelle nostre metropoli: svelarne le cause profonde.

Considerando che il rischio di finire in carcere è lo stesso sia per chi decide di delinquere sia per chi invece decide di lavorare per un salario da fame, la scelta di delinquere sembra la scelta più razionale. (…) Dopo questi anni di ricerca non mi stupisce più chi esce dallo stretto confine della legalità, anzi mi stupiscono molto di più tutti quei migranti (la maggior parte) che decidono di lavorare onestamente. Non smette di sorprendermi il fatto che un così alto numero di uomini e donne cerchi di lavorare rettamente dalle otto di mattina alle otto di sera per un salario che li fa a malapena sopravvivere.

Il risultato è un libro sensibile ai problemi etici che pone, ma sempre lucido e che non scade mai nella glorificazione della rivolta; sostenuto da dati precisi ma non schiavo di un approccio statistico e quantificato alla descrizione dei rapporti sociali (come troppo spesso accade). Insomma, eccellente etnografia “sul campo” mescolata a riflessioni “alla scrivania”.

Sono molti gli uomini e le donne migranti disposti ad accettare gradi estremi di sfruttamento, sopruso e autoritarismo, ma è anche vero, e allo stesso tempo è importante narrarlo, che sono molte le donne e gli uomini che decidono di rivoltarsi e di non accettare di essere schiavi.

(14/01/2015)