Crescere nell’assurdo

Sul numero di ottobre 2015 de “lo Straniero” è uscita la trascrizione rivista del mio intervento all’Università elementare degli asini, dal titolo Crescere nell’assurdo. Ho fatto solo alcune modifiche per adattare quanto detto alla pagina, ma ho mantenuto il tono orale e un po’ rapsodico della lezione.

(Update 01/11/2015: ho inserito qui il testo completo).

(Update 14/12/2015: Gian Piero de Bellis mi ha fatto notare un errore terribile: ho attribuito l’espressione “crescere nell’assurdo” a Nelson Goodman, quando in realtà è ovviamente Paul Goodman. Ho corretto, mi scuso per l’abbaglio).

Buongiorno a tutti. Sono molto contento di essere qua: quando Goffredo mi ha affidato il titolo Crescere nell’assurdo per il nostro incontro, mi sono un po’ spaventato — il tema è davvero vasto e complesso. Prometto che farò del mio meglio.

Di per sé, l’espressione “crescere nell’assurdo” è di un pensatore americano che citerò in seguito, Paul Goodman. Immagino che spesso ci sentiamo tutti circondati da questo genere di assurdo; credo che tutti noi sentiamo il peso degli anni che siamo chiamati a vivere. Anni che molto spesso, soprattutto nella semplificazione dei quotidiani, vengono etichettati come “gli anni del precariato” (pensando in primis al problema del lavoro). In verità il peso della precarietà che li contraddistingue è molto più vasto, e non tocca soltanto questioni, pure gravissime ed estremamente urgenti, legate all’impiego. Vorrei anzi suggerire che questa costante precarietà affettiva ed esistenziale si traduce in una condizione assurda, in una mancanza di senso — una sorta di erosione del senso, e la lotta che ne deriva per ritrovarlo.

Di certo non sono tempi unici, né mi piccherei mai di dire che sono tempi più assurdi di altri. Quale tempo non è assurdo? Però noi siamo chiamati a vivere questi, e di certo motivi di assurdità al giorno d’oggi non mancano. Io ricordo molto bene la disperazione feroce, la rabbia che mi mordeva il collo anni fa. Non che ora ne sia completamente privo, benché le cose vadano meglio: però all’epoca era davvero pungente, una sensazione di solitudine, di isolamento assoluto, di polverizzazione sociale. E credo che il punto fosse proprio questo: vedevo anche negli altri — nei miei amici e nei miei colleghi — la stessa condizione assurda cui mi sentivo crocifisso; ma non vedevo, non sentivo quasi, la possibilità di fare un fronte comune che funzionasse contro questa insensatezza. Questo è il tema urgente su cui bisognerebbe lavorare: rifondare l’idea di una comunità che non sia soltanto “contro”, ma anche “per”. Ci tornerò su.

Quindi da un lato sentivo l’incapacità di creare un’azione comunitaria efficace, mentre dall’altro leggevo (lo prendo proprio ad esempio perché mi colpì tantissimo) editoriali come quello di Pierluigi Battista, uscito su “Sette” nel 2009, in cui invitava i giovani a fare la rivoluzione. Probabilmente non rendendosi conto che se i giovani l’avessero preso sul serio fino in fondo, gli avrebbero ribaltato la scrivania in testa o qualcosa del genere. Non ottenendo granché, temo.

Poi con gli anni, grazie alle letture che adesso proverò a condividere con voi, ho intuito che c’è una via d’uscita da questo doppio stallo: non era necessario né ascoltare le sirene di chi diceva “Ah, voi dovete fare la rivoluzione, voi non siete come i vostri padri” e così via, né cedere alla disperazione atomizzata, solitaria, al solo ripiegamento nel privato. Era una sorta di via di scarto, una via minoritaria, un piccolo sentiero nel bosco. Ovviamente non pretendo risolvere l’assurdità di cui parliamo: cercherò soltanto di fornirvi alcuni elementi, alcuni spunti che a me stanno a cuore, per cercare di comprenderla e combatterla meglio. E siccome è un periodo in cui ho particolare sfinimento nei confronti delle mie parole, ho cercato di usare parole altrui: di pensatori e scrittori che amo molto. E quindi ho preparato una serie di estratti che a mio avviso hanno un forte elemento educativo, e poi proverò a commentarle. Cercherò di essere il più breve possibile, così poi le rivediamo e ne parliamo insieme.

Questa è la prima:

“L’insubordinazione quotidiana, silenziosa e invisibile (perché vola al di sotto del radar storico) non sventola bandiere, non ha funzionari, non scrive manifesti, non ha un’organizzazione permanente e si sottrae all’attenzione pubblica.” (Scott, Elogio dell’anarchismo)

Allora, parto subito in quinta con l’anarchismo. L’anarchismo non è il pensiero del “fai tutto quel che ti pare e fregatene”, “nessuno decide”, “crea caos e disordine nella società… Un’amica mi raccontava di una sua conoscente, ai tempi dell’università che in macchina prendeva sempre il semaforo rosso perché diceva di essere anarchica — “contro le regole”. Che idiozia! Il pensiero libertario non si scaglia contro le regole condivise, ma contro l’imposizione a forza del comando. Nella sua incarnazione minimale, è l’idea che non esistano poteri buoni di per sé, che il potere sia sempre qualcosa che rischia di corrompere l’essere umano, e che dunque le relazioni fondate sul principio di autorità debbano essere il più possibile combattute. Massimizzare la libertà e l’autonomia: nient’altro che questo.

Elogio dell’anarchismo è un libro che parte da una constatazione molto semplice: il mondo così com’è ci va bene? No. La cosa naturalmente vale anche per noi: già il fatto che siamo qua a parlare di “assurdo”, di “crescere nell’assurdo”… Be’, mi sembra chiaro che la struttura di questa società sia abbastanza sbagliata. Pensate alla diseguaglianza, non solo economica. Leggevo di recente un articolo che parlava di due forme di diseguaglianza cui non si pensa quasi mai: la diseguaglianza del sonno, per cui ci sono molti lavoratori che sono costretti a dormire poco e male per il tipo di lavoro che fanno o perché lavorano su turni; e la diseguaglianza della morte, per cui se sei povero a New York, per esempio, il tuo destino è finire in una fossa comune scavata da detenuti per pochi centesimi all’ora. Al di là dell’aneddotica, mi sembrano esempi significativi di come la forbice tra chi ha sempre meno e chi ha sempre più si sta allargando spaventosamente.

E quindi? Che si fa?
Intanto Scott ci dà uno spunto per fare in una maniera forse meno intuitiva o meno vicina alle linee cui tutti siamo abituati — penso ad esempio all’idea che si debba sempre passare per l’organizzazione partitica, quindi la politica unicamente come politica di rappresentanza. Scott ci dice che non dobbiamo per forza avere delle patenti di rappresentanza: è possibile anche combattere per una società migliore in maniera quotidiana, silenziosa e invisibile: senza manifesti, senza funzionari, senza tutto quello che io chiamo l’apparato dell’impegno. Un apparato che a volte può spaventarci, a volte può richiedere un grado di adesione quasi contrattuale a una lista di idee, e che a volte rischia di ricopiare la burocrazia della società che c’è là fuori, diventando pericolosamente simile al proprio nemico.

Mentre le forme che Scott propone nel suo libro introducono un’idea che vorrei sviluppare di una scelta che non implica né quella di essere eroi o supereroi o migliori di chiunque altro, né quella di essere sempre inevitabilmente ridotti a delle schede elettorali o a variabili nella grande macchina dell’impegno. Quella via d’uscita di cui vi parlavo in precedenza: non credere nella fiammata rivoluzionaria che scoppia a un certo punto e poi tanto rapidamente si esaurisce, né pensare che nulla possa cambiare e che non ci siano dei mezzi sostenibili per farlo: ci sono dei mezzi e dei modi sostenibili. Più tardi cercherò di parlarne in modo più concreto.

Intanto, la seconda citazione:

“Sapere, e far sapere, è un modo per restare umani. È un’azione che ha quindi anche una dimensione morale. L’individuo non migliora se stesso dedicandosi a un’attività spirituale, ma un mondo intellegibile è un mondo più perfetto: contribuirvi, significa mirare al bene dell’umanità.” (T. Todorov, Di fronte all’estremo)

Cosa significa “far sapere”? È il fondamento dell’educazione nel senso che più mi piace, che più mi sta a cuore, al di fuori di qualsiasi quadro istituzionale (il che ovviamente non significa che tale quadro che non sia importante). Significa proprio spargere il seme della conoscenza, spargere il seme della comprensione e del miglioramento di sé; fornire gli strumenti adeguati a chi non li ha, senza ricorrere a una procedimento di minaccia o di premio.

“Un mondo intelligibile è un mondo più perfetto”, dice Todorov. Non è un libro qualsiasi, Di fronte all’estremo: è un libro che si occupa dei campi del Novecento, soprattutto dei campi di concentramento nazisti ma anche dei gulag sovietici; è una riflessione sulla moralità alla prova di tale situazione estrema. I campi non sono solo l’esempio di quanto di più atroce si possa pensare: sono anche il simbolo, secondo Todorov, dell’annientamento del sapere; l’annientamento della dinamica domanda-risposta. La domanda “Perché?”, che in queste situazioni aleggia nell’aria come una sorta di odore, di profumo persistente, viene subito stroncata sul nascere: il potere non tollera “perché?”, e una struttura concentrazionaria è l’incarnazione più feroce del potere assoluto.

Lo spunto di Todorov è proprio questo: sapere e far sapere non è importante soltanto perché alimenta un nucleo di conoscenze o ti rende più colto. (Questo mi ha sempre irritato: l’idea della cultura come medaglia sul petto; tu sei colto perché hai uno scaffale di Adelphi in casa, oppure perché sai citare a memoria delle poesie di Leopardi: l’idea della cultura come un oggetto, una cultura reificata, qualcosa che ti puoi mettere in tasca e spendere in qualche modo nella società per fare bella figura… Ecco, questo secondo me è assolutamente inerte, del tutto inutile. Non crea contraddizione alcuna, non ha effetti).

Sapere e far sapere invece è importante perché implica il divulgare, il dare voce, il cercare attivamente di rimediare alle storture della società: Todorov dice che se i tedeschi (tanti più tedeschi) avessero saputo e fatto sapere nel 1939-1940, milioni di persone non sarebbero morte. Quindi tuto ciò che impariamo, e che diciamo, e che facciamo imparare, è qualcosa che non ci porta via nessuno. Questa è una cosa su cui poi cercherò di insistere alla fine: possiamo anche non servircene mai, però resta lì.

Ma non basta. Immagino che conoscerete tutti la frase di don Milani “L’operaio conosce cento parole, il padrone mille e per questo è lui il padrone”. Io oggi noto invece una sorta di curiosa inversione, per cui molto spesso noi abbiamo a disposizione anche diecimila parole, mentre i padroni ne hanno a disposizione molte meno: sono spesso più ignoranti dei loro dipendenti. Pensate solo al terziario avanzato: sicuramente molti di voi sanno di cosa parlo. E quindi quanto diceva don Milani resta giusto, ma la situazione è assai più sfumata: per cui non è più sufficiente soltanto avere un vocabolario e una capacità di comprensione della realtà più profonda di quella di chi ha il potere su di te, ma bisogna anche trovare il modo di fare agire, di mettere in circolo collettivamente questo patrimonio di parole. Io posso essere uno che ha una conoscenza, un sapere, un vocabolario: ma da solo non valgo nulla.

Quindi il “sapere e far sapere” di Todorov è un’estensione di noi che acquista davvero una dimensione morale.

Adesso passiamo a uno scrittore che amo molto, Luciano Bianciardi:

“Adesso capivo che sarebbe stato inutile e sciocco far esplodere io da solo — o con l’aiuto di Anna e di pochi altri specialisti — la cittadella del sopruso, della piccozza e dell’alambicco. No, bisognava allearsi con la folla del mattino, starci dentro, comprenderla, amarla, e poi un giorno sotto, tutti insieme.” (Luciano Bianciardi, La vita agra)

La storia de La vita agra la conoscente tutti: c’è questo toscano che sale a Milano alla fine degli anni ’50 con l’idea di far saltare in aria il “torracchione” dalle parti della stazione Centrale, per vendicarsi di una tragedia accaduta ai minatori nella sua regione. E invece, arrivato armato delle peggiori intenzioni, scopre l’amore: e soprattutto scopre un modo di rivoltarsi (cito di nuovo Camus e non sarà l’ultima volta) diverso da quello del “vado lì e faccio saltare la ‘cittadella del sopruso'”, che non è solo il torracchione ma è tutta Milano.

Questo non vuol dire perdere la rabbia, che è una cosa sana e sacrosanta, anzi spero che nessuno di noi la perda mai. Significa prendere coscienza che per combattere i mostri non bisogna diventare mostri noi stessi. Quindi la soluzione giusta è proprio questa: “Allearsi con la folla del mattino, starci dentro, comprenderla, amarla” significa che qualunque tentativo di distaccarsene, di coltivare una sorta di purezza rivoluzionaria o quel che è, di farsi avanguardia, di allontanarsi sempre di più per poi appunto pensare a delle soluzioni estreme, è un gesto che non ha nulla di autenticamente rivoluzionario, di autenticamente sociale.

Anche perché amare e stare dentro la folla del mattino è una fatica pazzesca. Nicola Chiaromonte diceva che il problema dell’intellettuale oggi è proprio la sua incapacità di parlare e stare dentro la massa, che non è un concetto astratto e molto spesso si rivela per nulla idealizzabile. Lui dice: “Avrebbe senso mettersi a spiegare Kant in mezzo a un treno di pendolari al mattino?”, come quello che prendevo io per andare a Milano dal paese dove sono nato. Avrebbe senso? Ovviamente ti tirerebbero le borse in faccia — e con ragione. Il punto è che in questa società il momento della domanda, il momento della riflessione, viene sempre continuamente rimandato, per cui no, adesso no perché sto andando in ufficio, no adesso no perché sto lavorando, no adesso no perché sto tornando dall’ufficio, no adesso no perché sono stanco, guardo la televisione, mi devo sbronzare. Certo, è comprensibile; però di questo passo anche l’influsso delle parole di chi ha avuto la fortuna (come ho avuto la fortuna io) di poter fare degli studi, di poter leggere Chiaromonte, di avere degli strumenti in più e volerli condividere (sapere e far sapere!), si disperde.

E quindi starci dentro, alla folla del mattino, significa evitare di sentirsi parte solo di una piccola società di persone elette come potremmo essere noi qua, che discutiamo di queste cose e poi ci dimentichiamo di quanto poi la realtà quotidiana è fatta di un prossimo che non ha nulla di attraente o particolarmente carino: il prossimo sui cui bisogna agire è spesso un prossimo avvolto nell’ignoranza, nella brutalità, nella cattiveria e nel razzismo. Però l’unico modo, come dice Bianciardi, è starci dentro.

E proprio sul tema della cittadella dei buoni, della società degli “illuminati” contrapposti alla “società lì fuori”, c’è questo inciso di Horkeimer e Adorno che mi è sempre piaciuto molto:

“anche l’alleanza col potere meno brutale non implica la necessità di tacere delle infamie.” (Horkeimer — Adorno, Dialettica dell’illuminismo)

Questa rischia di essere fraintesa come un invito alla cultura della delazione, ma non è ovviamente così. È un promemoria molto utile perché si comprenda che nessuno è automaticamente al riparo da infamie, giochi di potere, crudeltà, cattiverie, invidie e così via; nessuno. Anche la più bella delle minoranze, anche la più limpida, anche la più libertaria, è sempre a rischio di abuso. Ed è sempre a rischio di diventare una sorta di — scusate il bisticcio di parole — minoranza con l’ossessione maggioritaria, per cui tanto più minoritaria quanto più aggressivamente innamorata della sua purezza e pronta a schernire qualsiasi approccio che non viva all’interno di se stessa. Quando si generano questi abusi bisogna avere il coraggio, sempre, di parlarne. Anzi: bisogna avere il coraggio di criticare innanzitutto e con franchezza i propri compagni. (Per questo quando sento che “i compagni non si criticano” mi prende uno scoramento totale; come se appartenere a una comunità o a un’idea politica ti fornisse una patente di assoluta superiorità etica sempre e comunque).

È spesso nell’alveo delle buone intenzioni che rischiamo di generare il peggio, e il peggio potrebbe trovarci complici. Come dicevo in precedenza, se ci fidiamo, se vogliamo ascoltare l’eco del pensiero libertario, dovremmo aver compreso che il potere meno brutale rimane comunque un potere — e il potere a mio avviso è la cosa più brutta del mondo. È faticoso e difficile anche perché è inevitabile che si creino delle relazioni che vanno al di là della pura logica: se frequento persone con cui condivido degli ideali, delle pratiche di lotta, non è mai facile dire “Guarda, stai dicendo una sciocchezza”, oppure “Qui stiamo davvero sbagliando”. Però è qui che si misura il coraggio: non è difficile criticare o denigrare Salvini — ed è giusto, certo; ma dovremmo imparare a criticare anche gli errori o le inadempienze che si generano all’interno delle nostre comunità. Il fatto che combattiamo per un ideale migliore non ci mette al riparo dagli errori, dalla stupidità o dall’egoismo.

Ora un brano da un libro bellissimo:

“Non c’è bisogno della letteratura per imparare a leggere. C’è bisogno della letteratura per sottrarre il mondo reale alle letture sommarie, siano esse quelle del facile sentimentalismo o dell’intelligenza implacabile. La letteratura ci insegna a diffidare dei teoremi dell’intelletto e a sostituire al regno delle antinomie quello della sfumatura.” (Finkielkraut, Un cuore intelligente)

Dirlo meglio è impossibile (altro motivo per cui ricorro a frasi di altri).

Diffido molto dell’idea che la letteratura serva a qualcosa (nel senso che debba essere serva di un’idea o altro); credo anzi che in letteratura non debbano esistere “Tu devi”. Però è vero che la letteratura può aiutare a capire come certe letture preconcette del reale si rivelino fallaci. Un grande romanzo, benché non sia questo il suo scopo primario, ci insegna sempre il lavoro di decifrare la complessità.

Ma è un tema che riguarda tutti, non solo chi cerca di fare letteratura: l’uso pubblico della parola. Ci riguarda perché i mezzi digitali sembrano ormai implicare una sorta di compulsione al commento pubblico (e dunque potenzialmente ascoltabile da chiunque), all’opinione sarcastica o immediata. In una parola, a quella lettura sommaria della realtà che Finkielkraut suggerisce di abbandonare, abbracciando invece il regno delle sfumature. Cito di nuovo Camus: “Se la rivolta potesse fondare una filosofia sarebbe una filosofia dei limiti, dell’ignoranza calcolata e del rischio”. E secondo me è proprio questo il punto: l’esercizio del dubbio come norma morale, il rifiuto di pensare unicamente per antinomie e semplificazioni — il rifiuto del pensiero banalmente binario.

A questo punto però potreste sollevare un’obiezione. A furia di parlare di dubbio, di limiti e complessità, non rischiamo di abbracciare uno scetticismo logorante? A furia di andare per sfumature, non finiamo per cadere nell’inattività o dimenticare la prassi?

In effetti è un’ottima obiezione. Ma ho una risposta possibile:

“Per quanto mi riguarda, ne concludo che l’attuale ondata di scetticismo e disperazione, che nel futuro vede solo distruzione e decadenza, e respinge come assurde la fede nel progresso e qualsiasi prospettiva di avanzamento per il genere umano, è una forma di elitarismo — il prodotto di gruppi di élite la cui sicurezza e i cui privilegi sono stati sostanzialmente intaccati dalla crisi; e altresì di un’élite di paesi che ha visto infrangersi il proprio dominio incontrastato sul resto del mondo.” (E. H. Carr, Sei lezioni sulla storia)

Carr scriveva queste parole nel 1961, ma sembrano vestire questi anni alla perfezione. Il grande storico dice che lasciarsi andare allo scetticismo assoluto (comprese le varianti del tipo “Tutto è in mano ai potenti, la nostra azione nel mondo è inefficace, su scala troppo piccola” eccetera) è di fatto un privilegio. Chi rifiuta di impegnarsi lo fa perché può, e spesso lo fa mascherandosi dietro una pretesa eccessiva complessità del reale o un pessimismo radicale che è soltanto una posa. Un mio amico, all’università, diceva che il nichilista in realtà non esiste. Il nichilista, nella vita reale, fuma sigari e beve il Pernod: si gode privatamente e meschinamente la vita che trova invece tanto insensata. Constatare l’assurdo è un primo passo indispensabile, ma fermarsi lì è davvero troppo comodo.

Certo, non dobbiamo per questo cadere in un ottimismo sfrenato (anche perché come insegnava Hans Jonas nel Principio responsabilità, spesso l’ottimismo sfrenato genera mostri). Ma nemmeno fingere che le difficoltà che ci si pongono davanti siano una scusa per lasciare il mondo così com’è, consumandolo e basta.

Intanto torniamo a Camus:

“Non dunque la fratellanza contro, sempre in precipizio verso una ricaduta nella serialità, non appena l’unificante nemico sia stato rovesciato, ma la fratellanza per, autonomamente fondata su valori scelti e non strumentali. La rivolta è anche un contro, beninteso. Ma, soprattutto, è l’agire umano che decide il per irrinunciabile di ciò che vale (di ciò che vuole) come uomo.” (P. F. d’Arcais, Albert Camus)

Tutto il pensiero di Camus è pervaso dalla necessità di creare un fronte realmente costruttivo: non unicamente contro, per cui il cuore del cambiamento risiede solo nella distruzione dell’ordine esistente o nel continuare tutti i giorni, quasi fosse una preghiera mattutina, a scagliarsi contro qualcuno. La parte difficile del lavoro è la fratellanza per: il tentativo di trovare e mettere in circolo dei valori che non ci guidano solo nell’identificazione del nemico (il fascista, il razzista, l’omofobo…) ma soprattutto nel comprendere chi sono gli amici e i possibili alleati per una lotta comune — e ancor più, per creare dei contenuti e delle proposte davvero concrete. Su questo tornerò alla fine, con una decina di suggerimenti.

Ma ora è il momento di Alex Langer:

“Posso dire che rifuggendo drasticamente dai salotti e dalle persone che mi cercano in funzione di qualche mio ruolo, vivo come una delle mie maggiori ricchezze gli incontri, già familiari o nuovi che siano, che la vita mi dona. Vorrei continuare ad apprezzare gli altri ed esserne apprezzato senza secondi fini. Forse anche per questo converrà tenersi lontani da ogni esercizio di potere.” (A. Langer, Non per il potere)

Grazie a dio qua siamo molto lontani dai salotti e da ogni esercizio di potere… Ma è un tema che mi ossessiona. Il potere, qualunque aspetto o estensione assuma, anche il più piccolo, è sempre fonte di corruzione personale e sociale. Questo lo si vede molto bene nella politica partitica, certo — è ormai un luogo comune. Ma le relazioni di potere non sono confinate solo all’interno di alcune aree, né dobbiamo pensarci alieni ad esse anche se non frequentiamo i grandi salotti dell’alta società. Foucault ci ha insegnato con limpidezza che sono sparse ovunque. Pensate solo alle relazioni fra i sessi, al maschilismo terribile di cui è malata questa società: nient’altro che una forma di dominio che non ha nulla da invidiare, per negatività, alle forme di repressione statale.

Uno dei fronti su cui è necessario attivarsi è questa capacità di riconoscere i rapporti di potere ovunque, anche al di là dei luoghi dove vengono quasi date per scontate o messe in evidenza; snidarle e combatterle anche nelle relazioni interpersonali — anche e innanzitutto in noi.

E ora l’anarchico americano del nostro titolo, Paul Goodman:

“Questo proclamare a destra e a manca la parola rivoluzione, con i suoi connotati usuali, diventa, in un senso forte, controrivoluzionario. È un’accezione troppo politica del termine. Sembra presumere che possa esistere una cosa chiamata Buona Società o Corpo Politico, mentre, secondo me, la cosa migliorare da sperare è che ci sia una società tollerabile che permetta di praticare le attività più importanti dell’esistenza: l’amicizia, il sesso, le arti e le scienze, la fede, tirare su bambini con occhi splendenti, avere l’aria e l’acqua pulite.” (Paul Goodman, Individuo e comunità)

Di primo acchito può sembrare un brano molto rinunciatario, tutto appiattito sul particulare; in verità non è così. Goodman suggerisce che molto spesso il modo in cui pensiamo di fare politica a volte scambia il mezzo con il fine, e che l’abbaglio rivoluzionario è quasi sempre un abbaglio e basta. Il lavoro di mutamento radicale della società è molto più lungo, molto più paziente e molto più sottile di quanto possiamo pensare o vorremmo sperare.

Quindi sì, la politica e le forme di lotta politica sono importantissime, ma non devono diventare un fine in quanto tale, non devono diventare un modo per rappresentare la propria identità all’interno di un gruppo o coltivare “assalti al cielo” che spesso non risolvono assolutamente nulla. La lotta deve sempre essere un mezzo per fini più importanti, ovvero appunto “gli amici, le arti e le scienze, il sesso, tirar su bambini con gli occhi splendenti”. Una “società tollerabile”: è già tantissimo.

E ora Judith Butler:

“Per quanto in forme minime e vitali, raccontare e ascoltare una storia sono ancora una maniera per “condurre una vita”, poiché attraverso questi atti si afferma che in qualsiasi occasione possiamo riconoscere la vita e la sofferenza dell’altro. Anche il solo pronunciare un nome può costituire la forma più straordinaria di riconoscimento, specialmente quando si è diventati dei senza-nome, quando il proprio nome è stato sostituito da un numero, o ancora quando non si è degni di essere chiamati in nessun modo.” (J. Butler, A chi spetta una buona vita?)

Dare forma all’assurdo attraverso il racconto: potrebbe essere un sottotitolo a quanto abbiamo detto finora. Quando si attraversano dei momenti così cupi, disordinati e in apparenza totalmente privi di logica e senso, un buon modo è cercare di ridefinirli attraverso un ordine del discorso, quasi correggere in qualche modo il linguaggio che li rappresenta. Questo vale per la propria sofferenza, per la propria depressione, per il proprio abbattimento, per il proprio disorientamento, e soprattutto per la sofferenza e il disorientamento dell’altro. (Nelle Conversazioni contadine di Danilo Dolci, tenute a Partinico e da lui raccolte, c’è questa frase pronunciata da Mimiddu: “Questo lustro è per tutta la gente e non soltanto per me oppure per te; se fa buio è buio per tutti”. Nella sua semplicità, dice tutto quel che c’è da dire).

Judith Butler ci dà uno spunto per lavorare in questo senso. Immagino che tutti abbiamo seguito con apprensione, seguiamo con apprensione, le stragi dell’estremismo islamico che sono accadute di recente appunto in Francia, in Tunisia, per non parlare di quello che è successo a Garissa in Kenya. Molto spesso c’è una sorta di strabismo per cui la reazione diventa molto più scandalizzata e universale quando i morti sono bianchi, ad esempio, come quello che è successo a Parigi, mentre una cosa atroce come quella che è successa in Kenya non ha provocato marce di tutti i potenti del mondo. Perché molto spesso quei morti sono ridotti a puri numeri. Ma il diritto a una storia (il diritto al racconto dignitoso delle proprie vite) non può essere un privilegio. Credo anzi che questo diritto al nome, all’essere nominato come individuo e non semplicemente come uno dei centoquarantasette che sono stati trucidati a Garissa, sia un modo ulteriore per attaccare e demolire l’assurdo.

L’ultima citazione è di un teologo. Io sono ateo ma tengo molto a un libro di Drewermann, Il Vangelo di Marco. Anche se come me non siete credenti lo troverete illuminante. Ecco:

“Niente di ciò che amiamo davvero potrà essere distrutto. Niente di ciò a cui noi teniamo tanto che ci permette di umanizzarci, sarà distrutto dalla morte.” (E. Drewermann, Il vangelo di Marco. Immagini di redenzione)

Drewermann ovviamente ha una prospettiva escatologica, ma il passaggio è interessante perché parla di ciò che “ci permette di umanizzarci”. Non di essere cristiani migliori: di umanizzarci. Che è esattamente il nostro terreno. In tal senso la frase di Drewermann contiene un elemento di consolazione: non c’è atto di lotta contro l’assurdo che si perda; nessuno, mai. Per quanto possa sembrare stranamente e confusamente ottimista, è un pensiero che mi porterò nella tomba.

Certo, è inevitabile che vi siano dei momenti di sconforto totale; è inevitabile che si pensi che la nostra azione nel mondo si disperda e venga divorata dalla stupidità, dall’ignoranza, dalla brutalità del potere. È inevitabile. Ma c’è un filo che prosegue, c’è un’eredità in qualche modo da consegnare. Uno degli effetti più deleteri dell’assurdo è proprio quello di renderci dubbiosi sulla possibilità di crescere attraverso l’assurdo stesso: e dunque consegnarci alla disperazione. Ma come dice Drewermann, niente di ciò che amiamo potrà essere distrutto. E come diceva il grande poeta Alberto Dubito, una delle voci più limpide della nostra generazione — una delle voci che più ci manca — “il vostro mondo c’è”. Il vostro mondo c’è: non una terra promessa al di là del domani, ma un luogo da costruire oggi e nel futuro prossimo.

Bene. Ora chiuderò con una decina di idee concrete, altrimenti procedere per citazioni colte rischia di replicare il rischio dell’elitarismo o di un discorso troppo astratto e slegato dalla pratica. Sono solo dieci spunti fra i tanti possibili: poi sarà bello discuterli insieme.

1. Battersi per un’educazione libertaria. Qui con “educazione” non intendo semplicemente il sistema scolastico ma tutto ciò che concerne il sapere e far sapere di cui parlava Todorov (e in particolare il fornire agli altri gli strumenti adeguati per ragionare in autonomia). “Libertaria” significa tante cose, ma qui voglio porre l’attenzione su un dettaglio in particolare: deve lasciare i più ampi margini di autonomia nel bambino come nella persona, per fargli capire quanto l’autonomia e la libertà siano beni preziosissimi. Come diceva Mario Lodi, “il bambino di oggi, se cresce chiuso, pauroso, intollerante è perché qualcuno vuole che cresca così, per un disegno antiumano che l’educatore ha il compito di smascherare. Qualcuno che teme l’uomo veramente libero perché a lui deve rendere i conti.” Certo, non mi sogno nemmeno di proporre soluzioni precotte o troppo vaghe a chi fa l’educatore di mestiere: so quanto è complicato e quanto nella pratica molti idealismi finiscono per smussarsi. Ma vi invito a tenere presente questo punto anche nella vita di ogni giorno, proprio perché abbiamo parlato di un sapere e far sapere ad ampio raggio, che non si esercita solo nei luoghi classicamente preposti all’educazione. E a tal proposito…

2. Evitare di ricorrere sempre alla dinamica del premio o della punizione. Idem: l’idea che un sapere di qualsiasi tipo possa essere offerto, invece che propinato a forza. Una cosa del tipo “Guarda, io ti dico questo, poi tu fai quello che vuoi; però intanto te lo dico: ascoltami, se vuoi criticami o parliamone, però non è che se non mi segui ti manganello o ti dico che sei un cretino; pensaci su”. Io sono sempre stupito di vedere i risultati che genera questo modo di fare. Non tanto sul versante del contenuto stesso, ma proprio sulla forma con cui viene veicolato. Ha qualcosa di magico — e in realtà è molto semplice: basta trattare ogni persona come un essere razionale e autonomo.

3. Argomentare sempre. Sempre. Viviamo un’epoca dove la critica è ridotta molto spesso alla battuta salace e breve, al sarcasmo. E il sarcasmo per me è uno dei mali peggiori di questi tempi — la versione sghignazzante del cinismo: per cui più sei sarcastico più sei autorizzato a dare contro a chiunque, come una sorta di moralizzatore ridanciano. Io posso capire benissimo quanto sia liberatorio, ma temo che alla lunga non generi vero dissenso; non fa che alimentare il gioco del rancore senza offrire nulla di costruttivo. Invece l’esercizio del dell’argomentazione, della critica razionale e paziente, ha un valore immenso: offre ragioni disponibili a chiunque per essere accettate o rifiutate in totale autonomia. Un metodo impopolare, certo: perché molto faticoso. Ma indispensabile, anche per ricostruire quell’ordine perso del discorso, quell’ordine della narrazione, della storia, della logica, di cui parlavo in precedenza.

4. Lavorare meno e meglio. Questo è uno spunto di lotta pratica. Disoccupazione alle stelle, ormai la “Repubblica fondata sul lavoro” dovrebbe dotarsi di strumenti di supporto sociale diversi da quelli dell’occupazione, che sarà sempre meno disponibile. A tal riguardo penso naturalmente al reddito di cittadinanza. In aggiunta, offro come spunto anche quello di “lavorare meglio”: con meno burocrazia delirante, con meno processi inutili, con meno rigidità gerarchiche, con maggiore cooperazione interna.

5. Superare la carcerazione, quantomeno per come è intesa e applicata oggi. Fortunatamente questo tema sta diventando abbastanza centrale per l’opinione pubblica (o almeno per la sua fetta più informata e progressista). A parte casi di totale necessità della reclusione, il carcere è molto spesso una misura punitiva che non genera alcuna rieducazione o nuova inclusione; l’esatto opposto. C’è una quantità di gente in carcere per reati minori (lo spaccio, ad esempio) che vengono restituiti poi alla società come criminali molto peggiori. Il riconoscimento dell’errore da parte di chi ha sbagliato è cruciale, ma altrettanto cruciale è che la società offra delle opzioni di reinserimento, di recupero e di riqualificazione efficaci e rispettose del singolo. Su questo, la lotta portata avanti da Luigi Manconi è inestimabile: e credo dimostri senza ombra di dubbio che il carcere (e soprattutto il carcere com’è strutturato oggi) sia un’istituzione che maschera un enorme bisogno di vendetta sociale.

6. Sviluppare forme di lavoro cooperativo: si lega al punto quattro. Tutto quello che è forma di lavoro e sostentamento che va al di là del semplice sistema puramente e schiettamente corporativo ha senso. E se possibile, fare in modo che questo circolo virtuoso si ampli e aiuti anche altri — meno fortunati, magari — a fare lo stesso.

7. Opporsi alle grandi opere. Non solo specificamente questa o quell’opera: proprio al concetto deviato di grande opera in quanto tale, e di “maxi-evento” (termine altrettanto inquietante). Oltre alla lotta contro la Tav, qui è inevitabile pensare all’Expo di Milano: non solo perché progetti di queste dimensioni finiscono spesso in mano alla criminalità organizzata e non raggiungono l’obiettivo prefissato — ma più di tutto perché lasciano i territori completamente squadernati e distrutti. Mai come nelle grandi opere si vede l’ipocrisia e la spietatezza del potere verticale che decide fregandosene delle istanze locali e “orizzontali”. Per ragioni innanzitutto di profitto.

8. Impegnarsi in prima persona senza ricorrere sempre alla delega. È il principio cardine del pensiero libertario. Non ridursi semplicemente a macchine da scheda elettorale, non fare in modo che ci pensi qualcun altro. Longanesi diceva che sulla bandiera italiana si poteva scrivere “Tengo famiglia”; oggi si potrebbe aggiungere: “Delega e lamentati”. Tutte forme di de-responsabilizzazione che non fanno bene.

9. Domandarsi sempre se i mezzi usati sono coerenti con i propri fini: altro cardine del pensiero anarchico. Per combattere un mostro non bisogna diventare mostri; dobbiamo sempre pensare che i mezzi che non usiamo oggi non possiamo usarli domani, per cui dobbiamo sviluppare delle forme di riflessione, di miglioramento, anche di lotta politica, che siano assolutamente coerenti con i propri fini e con i propri ideali.

10 Essere gentili. Lo so, lo so, sembra una sciocchezza buonista. Ma per gentilezza non intendo un culto ipocrita delle buone maniere (che spesso nasconde grosse bassezze morali). Per ne il pensiero della gentilezza per non significa nient’altro che questo: vedere nell’altro un fine e non un mezzo, chiunque egli sia. Vederlo come essere umano. Non è una soluzione universale; solo un terreno su cui poi far germogliare pratiche migliori e più efficaci, replicabili da chiunque — pratiche sostenibili e luminose.

(01/10/15)