Cosa si è rotto nella lingua italiana degli scrittori?

Iniziamo con una lettera del giovane Pasolini a Serra (10 luglio 1942), citata più estesamente da Piergiorgio Bellocchio in Un seme di umanità quale esempio di «poesia non meno (e talvolta di più) della produzione specificamente poetica dello stesso periodo»:

Vedo ora un fanciullo che reca l’acqua dalla fontana dentro a due brocche: egli cammina nell’aria chiara del suo paese, che è un paese a me sconosciuto. Ma egli, il fanciullo, è figura a me notissima, e con il cielo che sbianca con funerea dolcezza, e con le case che si abbandonano a poco a poco all’ombra, mentre ogni cosa, nella piazzetta, è soverchiata da un tormentoso suono di tromba. […] Ma la sera non desiste di lambire i paesi del mondo, le loro piazzette caste e quasi solenni, in un acuto profumo d’erba e d’acqua ferma.

Commenta Bellocchio: «Sembrerebbe che tra percezione e espressione corra un rapporto di assoluta immediatezza». Sembrerebbe, appunto: benché il talento di Pasolini si riveli subito — una capacità quasi rabdomantica di cogliere e trascrivere gli elementi poetici del reale — l’apparente immediatezza è sempre frutto di distanza rispetto a quanto percepito. Insomma, è lavoro di stile.

Tale modalità espressiva rappresenta per me la lingua italiana contemporanea al suo meglio, nella sua specificità e vitalità. Non era certo l’unica (basti pensare alla Neoavanguardia, a Manganelli, a Gadda o ad Arbasino): ma mi è particolarmente cara. In una formula, la chiamerei lirica concretezza: i nomi riflettono le cose con un nitore sorgivo; la costruzione della frase ha una sonorità morbida, intimamente accogliente; e uniti all’aggettivazione e all’uso di certi verbi («piazzette caste», «funerea dolcezza»; «desiste» ecc.) tali aspetti infondono nel brano un lirismo sommesso.

Qualche altro esempio sparso. Paola Drigo, Maria Zef: «E man mano che la salita si faceva più dura, la montagna si spogliava, si faceva più violenta e più nuda, coi suoi ciuffi d’erbe magre, con le sue crode difformi scaraventate giù per l’erta, con le sue fredde cime, nette, taglienti, contro il cielo».

Giorgio Bassani, L’airone: «E mentre veniva ritrovando al di sotto del berretto di pelo i medesimi lineamenti di ogni risveglio (la fronte calva, le tre rughe orizzontali che l’attraversavano da tempia a tempia, il naso lungo e carnoso, le palpebre pesanti, affaticate, le labbra molli, quasi da donna, il buco del mento, le guance smunte, sporche di barba), ma tali tuttavia da apparirgli come velati, allontanati, come se appena poche ore fossero state sufficienti a spargere su di essi la polvere di anni e anni, sentiva lentamente farsi strada dentro se stesso, ancora confuso eppure ricco di misteriose promesse, un pensiero segreto che lo liberava, che lo salvava».

Cristina Campo, Gli imperdonabili: «Con l’uomo trasformato, si trasforma il mondo. Esso si popola istantaneamente di figure e meraviglie sempre sfiorate e mai neppure supposte: tutto ciò che c’era da sempre ma solo oggi c’è veramente. Sorgono da ogni lato, come restituiti ai loro corpi visibili, i luoghi di insospettato splendore, le creature adorabili la cui vita è una festa occulta, regolata da circuiti stellari, scortata da invisibili cori, irrorata di gesti espressivi».

Infine Primo Levi: «Una volta, viaggiando a notte su un’autostrada illuminata dalla luna, ho sentito i vetri e il tetto dell’auto bombardati come dalla grandine: era uno sciame di distichi, lucidi, bruni ed orlati di arancio, grossi come una mezza noce, che avevano scambiato l’asfalto della strada per un fiume, e tentavano invano di ammararvi» (da Gli scarabei, in L’altrui mestiere). E in questo passo secondario c’è tutto, direi: tutto ciò che una bella frase dovrebbe avere: compattezza, originalità e rigore nella scelta dei termini («orlati di arancio»; «grossi come una mezza noce», «ammararvi»), equilibrio sintattico e melodia. Nessun ricorso a particolari fuochi d’artificio; solo molta cura e una grande freschezza espressiva.

Vi sono molti altri brani di tenore simile in Natalia Ginzburg, Guido Piovene, Anna Maria Ortese, Beppe Fenoglio, Carlo Cassola, Luigi Meneghello, Giovanni Testori e così via — a volte con maggiori o minori concessioni espressive, quali reti di interpunzioni più fitte o sintassi maggiormente increspate, ma senza mai uscire da un registro piuttosto classico e lontano dalle avanguardie.

Troppo facile con nomi del genere, si obietterà, ma il punto è che tale postura stilistica riguarda anche i meno noti: potrei citare Marina Jarre, Eugenio Corti, Fabrizia Ramondino, Ubaldo Bertoli, Umberto Simonetta: in tutti, pur con ovvie differenze, vi sono tracce di quella chiarezza e luminosità, di quella integrità lirica; la lingua pulsa viva. Anche quando racconta cose terribili, è una lingua felice.

Le cose, da un certo punto in avanti, sembrano andate peggiorando. Non parlo della qualità generale di un testo, o della varietà di storie raccontate, ma soltanto della lingua: nella narrativa e saggistica contemporanea è più raro trovare questo italiano, e assai più semplice trovare sciatteria.

[continua su Doppiozero]

(27/10/22)