I diavoli di Candido

Leggo il Candido di Voltaire (uno dei tanti classici che mi mancava) e ne resto deliziato, per motivi di ordine puramente letterario; oserei dire di semplice incanto. Sì, certo: la critica ironica alle teorie di Leibniz incarnate da Pangloss; la dialettica con il manicheo Martino; la celebre conclusione dell’orto da coltivare. Ma in tutta onestà questi aspetti mi sono apparsi secondari, persino irrilevanti. I personaggi dialogano di filosofia, ma senza portare grandi argomenti; e ogni conversazione sembra sempre cadere sul lato umoristico.

Più che un conte philosophique mi sembra dunque un conte, una storia felicemente orizzontale: non c’è approfondimento dei personaggi, gli eventi si succedono a un ritmo rocambolesco (il rocambolesco: ecco un elemento ormai quasi perduto), e sembra che Voltaire stia indulgendo nel piacere infantile di raccontare — di spingerci in avanti nelle avventure di Candido e compagni. Questo libro è soprattutto un giro del mondo (il mondo sospeso a metà fra citazioni realistiche e luoghi immaginari) in un centinaio di pagine. Ha ragione Barthes nel chiamarlo “l’ultimo degli scrittori felici”.

In particolare, sono rimasto affascinato da alcuni piccoli dettagli che rivelano lo scrittore di razza e non il filosofo prestato all’apologo. Le descrizioni dei cibi, ad esempio: in una trattoria si mangiano “maccheroni, pernici della Lombardia, uova di storione”, e si beve “vino di Montepulciano, di Cipro, di Samo e lacrima christi”.

Oppure l’evocazione di Eldorado, tra “mercati adorni di mille colonne, le fontane d’acqua pura, le fontane di acqua di rose, quelle che riversavano ininterrottamente liquori di canna da zucchero in grandi piazze lastricate di una specie di gemma che emanava un profumo simile a quello del garofano e della cannella”.

Ma quello che più ho amato (il mio punctum del libro, per dirla ancora in linguaggio barthesiano) sono le poche righe in cui Voltaire descrive come Candido e Pangloss vegono vestiti dall’Inquisizione prima della loro condanna nel sesto capitolo: “furono rivestiti di un sanbenito e le loro teste ornate con mitre di carta: la mitra e il sanbenito di Candido erano dipinti a fiamme capovolte e a diavoli senza code né artigli; ma i diavoli di Pangloss avevano artigli e code, e le fiamme erano all’insù”.

Dove la differenza simbolica fra la direzione delle fiamme e delle figure demoniache — sembra quasi tratta da un oscuro manuale cinquecentesco — spinge subito il lettore a immaginare una differenza nella punizione. E così è.

In generale, e uscendo dalle osservazioni strettamente artistiche, più leggo Voltaire più ci trovo un tenore di razionalismo misurato ed equilibrato: un’ironia sensata e priva di sarcasmo che trovo molto salutare, specie per i tempi in cui viviamo.

Sciascia, grande amante di Voltaire (e che fece del Candido una riscrittura tutta siciliana), la pensava così. In una nota del 1978 contenuta in Nero su nero osserva che occorreva scegliere tra la rotta Rousseau e quella Voltaire: un dualismo semplificato finché si vuole, ma che certo non si limita a quell’anno difficile; è un’eredità della modernità. E scrive:

a prima vista la rotta Rousseau sembra la più vasta, la più sconfinata, la più promettente; e certamente la più affascinante. Ma non è quella che è stata percorsa già? Non è quella del romanticismo, della “volontà generale”, della parte maggiore del tutto, degli “ismi” più micidiali?

Cerchiamo di far bene i conti. E anche se di Voltaire non ci resta molto, anche se soltanto ci restano i racconti, le pagine sul caso Calas, un mucchieto di lettere, questo poco teniamocelo, a questo poco afferriamoci. O andremo a fondo con Le confessioni e l’Emilio di Rousseau appesi al collo.

(22/07/17)