Alessandro Leogrande, ti voglio bene

Ieri è morto Alessandro Leogrande, a quarant’anni, per un malore. Lo conoscevo da diverso tempo, benché ci fossimo visti dal vivo in non molte occasioni. Abbiamo avuto modo comunque di lavorare insieme, dallo Straniero di cui era vicedirettore a Pagina99 per cui, lungo alcuni mesi, curò l’inserto dedicato ai reportage Fuoribordo.

Lo stimavo moltissimo e gli volevo bene (no, gli voglio, gli voglio bene). Ogni volta in cui lo rivedevo – l’ultima è stata a marzo, a Bookpride – ero felice di abbracciarlo. So che sembra retorica, ma anche solo vederlo mi spingeva al sorriso.

E ora è morto, all’improvviso, e sto riscrivendo questo incipit da mezz’ora perché sono ancora nella fase della mancata accettazione. Ma ciò nonostante vorrei dedicargli qualche parola in più di un tweet commosso, proprio perché delle parole lui aveva così tanta cura. Dunque provo a dominarmi, come hanno fatto altre persone che gli sono state ben più accanto di me: Christian Raimo, Nicola Lagioia e Marino Sinibaldi, Annalisa Camilli e tanti altri. Non sarà forse il migliore dei miei pezzi, ma sarà sincero.

Alessandro era uno scrittore, giornalista, intellettuale; ma questo dice ancora poco: tanti scrittori giornalisti intellettuali sono individui qualunque, spesso deteriori. Lui però possedeva la virtù, coltivata con passione e intransigenza, dell’integrità morale: e da questa gli veniva, come fosse un dovere implicito, un nitore assoluto del pensiero.

Io l’ho sempre visto come un erede di Chiaromonte e Caffi: di quella linea libertaria e ahimè in secondo piano del nostro Novecento: era meticoloso, aperto al dialogo, serissimo eppure capace di una prosa fresca e comprensibile – aperta a chiunque perché istintivamente nemica del potere e dell’oscurità.

Ma soprattutto era un grande erede di Gaetano Salvemini, che amava spesso citare: un inesausto indagatore della questione del Mezzogiorno. Come ha detto Lagioia a Radio3, si è occupato di mafie senza mai diventare un “professionista dell’antimafia” – per citare la celebre espressione sciasciana. Non solo: Alessandro sapeva parlare di caporalato, criminalità organizzata, divario nord/sud, precarietà, razzismi: così come sapeva parlare di immigrazione, libertà ed eguaglianza, Taranto, antifascismo, Genova 2001, renzismo, sfruttamento nelle campagne, Africa, sinistra in crisi, muri e migrazioni, Ilva, Berlusconi, i CIE.

Questo eclettismo, questo amore – amore, amore – per la conoscenza e la sua trasmissione; questa inimicizia naturale verso il potere, lo confermano certo un nipote di Salvemini: ma anche un figlio di Alexander Langer e un fratello di Luca Rastello.

Era uno straordinario reporter, perché insieme all’indagine sul campo affiancava una rigorosa conoscenza teorica; ai fatti – riportati sempre puntualmente e mai alterati per sostenere una tesi preconcetta – accompagnava la riflessione, il dubbio, lo stimolo. Un libro come La frontiera è in questo senso esemplare, e consiglio a chiunque di leggerlo o rileggerlo.

Conosceva le trappole di una lingua autoindulgente o inutilmente solenne. La sua voce, scritta o parlata alla radio, era invece sempre limpida, attenta, accurata; il suo italiano nutrito delle migliori letture.

Questo lo scrittore.

E l’uomo?

Altri, che l’hanno conosciuto più a lungo e meglio di me, sono senza dubbio più titolati a dire di lui. Per quanto posso dire io, Alessandro possedeva qualità straordinarie: era gentile, sorridente, pacato, dotato di una straordinaria umanità e di un’etica cristallina. Era invaso da una grandissima serietà, dalla profondità che reca soltanto il bisogno di comprendere e combattere il mondo così com’è, sempre parlando con lucidità alla ragione e senza mai solleticare con ammiccamenti alla pancia. Eppure era anche pervaso da un garbato umorismo: io ne ricordo tutt’ora il bellissimo sorriso.

Credo che il modo migliore per tenere vivo (tenere vivo, non ricordare) uno scrittore sia leggere le sue parole e meditarci sopra. Di parole Alessandro ce ne ha lasciate tante, inesausto com’era: e tutte molto belle. Potete iniziare dagli articoli raccolti su minima&moralia, e poi passare ai suoi libri, e quindi recuperare tutto il resto.

Posso aggiungere solo qualcos’altro, mentre il giorno in cui ho appreso della sua morte improvvisa – a quarant’anni, sant’iddio – sta per finire e il momento dell’incredulità dovrà lentamente cedere all’accettazione, per quanto non voglia. Era, sia detto con semplicità, un uomo buono, serio e appassionato. E nel dolore di questo momento, spero resti il monito che nel tempo che ci è concesso su questa terra dobbiamo essere buoni, seri e appassionati anche noi.

Anche per questo vorrei permettermi di citare le parole di suo padre, nell’annuncio terribile della morte del figlio:

Alessandro, per me, era bellissimo. Alessandro era la Gioia, che entrando in casa, ci coinvolgeva e travolgeva, roboante e trascinante; ma era anche il lavoro fatto bene, analitico e profondo; tutto alla ricerca della verità; ed era anche la denuncia; fatta con lo stile dell’annuncio, che, nonostante tutto, un mondo migliore, è ancora possibile. Ho sempre percepito, orgogliosamente, che la Sua essenza fosse molto, ma molto migliore della mia. Oggi questo padre si sente orfano.

Nel cinismo, nell’indifferenza, nella cattiveria, nella distruzione gratuita, nell’odio spacciato per la rivoluzione, ecco: Alessandro Leogrande – la sua persona e le sue parole, la sua cura per le cose, la sua concretezza nel trattare il discorso politico, la sua radicalità e la sua gentilezza – sono state e tuttora sono – ecco l’importante: tuttora sono – l’antidoto indispensabile che ci serve; l’eredità intellettuale che dobbiamo raccogliere.

Ciao Ale. Ti voglio bene.

(27/11/17)